Sono poco meno di 5.000 e aumentano i detenuti che hanno solo uno o due anni di pena da scontare e quindi nemmeno il tempo di un’eventuale “rieducazione”, per vari motivi non accedono alle misure alternative e spesso sono destinati a tornare dietro le sbarre. “In una sorta di serialità, con un complessivo inasprimento della propria marginalità”, annota Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua ultima relazione al Parlamento, a conclusione di un mandato durato sette anni.
Il sovraffollamento carcerario resta endemico ma non esplode. Dai 54.653 del 31 dicembre 2016, primo anno di Palma, i detenuti sono aumentati fino a 60 mila, sono scesi nel pieno del Covid e poi di nuovo risaliti per arrivare ai 57.230 del 1° giugno scorso: in sette anni sono aumentati di circa 2.400 a fronte di mille posti ordinari aggiuntivi (ne abbiamo quasi 51 mila in tutto). Le donne sono 2.504, sette anni fa erano 2.258. Nello stesso arco di tempo però – a fronte di un calo degli omicidi (-25 per cento), delle associazioni mafiose (meno 36 per cento, chissà perché) e delle rapine (meno 33 per cento), mentre i reati di droga restano “stabili o in leggero aumento” – l’insieme di chi sconta misure e sanzioni penali, in carcere e fuori, si è dilatato notevolmente: da 98.854 a 137.366 tra detenuti in senso stretto, persone sottoposte a misure alternative (oggi 53 mila) e “messe alla prova” (25mila). Insomma, ha sintetizzato Palma, “le misure alternative e quelle di comunità non sono andate a diminuzione dell’area detentiva in carcere, ma si sono affiancate a essa”. Non è così, fortunatamente, per i minori: 309 in cella su 14mila in carico al sistema penale, quasi gli stessi di sette anni fa, “un rapporto – rileva Palma – che lascia alla detenzione in carcere una dimensione realmente residuale”.
Tra gli adulti calano (dal 34 al 31,2 per cento) i reclusi stranieri e soprattutto coloro che non hanno neppure una condanna definitiva (dal 35,2 al 26,1 per cento). Drammatico, però, è il conto dei suicidi: 30 dall’inizio dell’anno dopo il terribile record di 85 nel 2022, contro circa 4.000 l’anno su quasi 60 milioni di italiani. Poco meno di 5.000 detenuti non hanno finito le scuole dell’obbligo e, tra i soli italiani, 577 non hanno completato nemmeno il ciclo primario (elementari) e 845 sono analfabeti, accanto però a 1.427 iscritti all’università.
Il Garante uscente ha parlato di Costituzione come “baluardo” e declinato in mille modi i temi della tutela dei diritti fondamentali, del reinserimento e del “sostegno all’autonomia” di chi è recluso in una relazione di ampio profilo, più “di prospettiva” che “di bilancio”, rivolta cioè a chi verrà dopo di lui. Non sarà facile per nessuno prendere il posto di questo ex professore di matematica del liceo Virgilio di Roma, tra i fondatori di Antigone negli anni 80, a lungo rappresentante italiano nel Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dal 2016 primo Garante nazionale, capace in questi di tessere delicate e proficue relazioni a tutti i livelli con la magistratura e le forze di polizia, contando anche sul pieno sostegno del presidente Sergio Mattarella che ieri gli ha inviato un messaggio in cui ne sottolinea la “sapiente attività” e la “visione puntuale”.
La detenzione amministrativa dei migranti irregolari, ha spiegato ancora Palma, fallisce il suo obiettivo – che per legge è il rimpatrio, trattandosi di persone che non hanno commesso reati – in un caso su due: su 6.383 stranieri rinchiusi nei Centri di permanenza per il rimpatrio nel 2022 soltanto 3.154 sono stati rimpatriati. “Il totale dei rimpatri è stato peraltro molto limitato: 3.916, principalmente in Tunisia (2308), in Albania (518), in Egitto (329), in Marocco (189), numeri piccoli – ha rilevato Palma – rispetto al clamore frequente delle intenzioni annunciate”. Con il consueto equilibrio il Garante non ha nascosto la sua preoccupazione “riguardo all’estensione generalizzata del trattenimento in frontiera – ha detto – in luoghi connotati da extraterritorialità e alla possibilità di trasferimento forzato delle persone migranti verso Paesi terzi di transito, indipendentemente dalla connessione della persona con quel territorio, considerati sicuri, anche se non vincolati dall’adesione alla Convenzione di Ginevra”, al centro dell’ultimo vertice Ue sul tema.
Il Garante in uscita ha ricordato i procedimenti aperti a carico di agenti penitenziari per tortura, reato introdotto nel 2017, ma anche quelli su abusi e violenze negli uffici di polizia, come da ultimo alla questura di Verona: “Tali gravissimi casi – ha detto – non sono rappresentativi della cultura generale delle forze di polizia del nostro Paese: tutti noi siamo consapevoli del livello di democrazia e della professionalità raggiunti in particolare in anni recenti. Tuttavia, sono indicativi di una cultura, non leggibile con il paradigma autoconsolatorio delle ‘mele marce’; una cultura che oggi alberga, minoritaria, ma esistente, in settori di operatori di polizia, che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere”.
Non poteva non allarmare Palma che invece, proprio dopo Verona, sia tornato all’ordine del giorno il tema del possibile restringimento dell’area di applicazione del reato di tortura, il cui parametro è già ridotto rispetto a quello delle Convenzioni internazionali in materia. Quella “faticosa mediazione”, secondo il Garante, sta “facendo emergere, per distinzione, la dignità professionale della quasi totalità di coloro che agiscono con professionalità e dedizione, rispetto all’accertamento delle situazioni dove invece la logica dell’arbitrio è divenuta prevalente”. Per lui è “una norma da difendere”.