La bocciatura sostanziale e tecnica arriva anche da chi ha difeso per anni colui al quale hanno dedicato la riforma. Franco Coppi, storico legale di Silvio Berlusconi, giudica negativamente l’abrogazione dell’abuso d’ufficio contenuta nel ddl Nordio, approvato giovedì dal Consiglio dei ministri. Il giudizio del professore e avvocato è tranchant: “Non mi pare una grande alzata di ingegno”. La spiegazione è molto semplice: “Togliere l’abuso d’ufficio vorrà dire che i pm procederanno per corruzione, si allargherà il concetto di utilità e al posto dell’abuso avremo la corruzione”. Coppi diventò il “principe” del collegio difensivo del leader di Forza Italia, scomparso lunedì e a cui il governo ha ‘dedicato’ la riforma di giovedì, nel 2013. Lo ha difeso nei processi Mediaset e Ruby, affiancando gli storici legali Niccolò Ghedini e Piero Longo, smussando l’eterno assalto ai palazzi di giustizia e introducendo un aspetto più tecnico. E ora proprio lui, più volte definito lo “scienziato del diritto”, avvisa sui possibili futuri scenari che discenderanno dalla scelta del governo. La “paura della firma” che il ministro Nordio ha inteso cancellare, insomma, rischia di diventare un boomerang, secondo Coppi. Senza considerare che l’abolizione è in contrasto con gli impegni internazionali sottoscritti con l’Onu e l’Unione europea.
Coppi è dialogante perfino sull’importanza delle intercettazioni, da sempre terreno di scontro proprio da parte di uno dei suoi assistiti più noti: “È assurdo discuterne, perché è talmente ovvio che sono indispensabili e necessarie, che sotto questo punto di vista è uno strumento assolutamente irrinunciabile, che poi si possano cercare rimedi per evitare lesioni dei diritti di terzi, rendendo compatibile tutto questo con la libertà della stampa, mi pare che sia un terreno aperto”, ha spiegato il professore. “Indubbiamente ci possono essere situazioni di terzi che non hanno niente a che vedere con il processo che possono essere danneggiati dalla divulgazione di notizie – ha chiarito Coppi – Quindi, sotto questo punto di vista, che ci siano dei tentativi di disciplina mi sembra che sia ovvio, senza per questo temere che ci siano bavagli alla stampa. Sono situazioni compatibili”.
Con le norme introdotte dal governo Meloni, è bene ricordarlo, viene introdotto il divieto di pubblicazione anche parziale, attualmente previsto solo per i nastri non acquisiti al procedimento, si estende a qualsiasi dialogo che non sia stato “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Non potranno più essere pubblicate, quindi, nemmeno le conversazioni citate nelle richieste di misure cautelari del pubblico ministero. Proprio nelle richieste del pm non potranno più essere citati “i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”. I nastri “che riguardano soggetti diversi dalle parti”, qualunque cosa voglia dire, non potranno più essere acquisiti dal giudice nell’udienza stralcio, “sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”.
Sul punto è particolarmente critico il costituzionalista Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale all’università La Sapienza. Per il professore la scelta “dimostra una continuità di indirizzo politico” da parte del governo, che “si rivela sempre ostile alla necessità dei controlli, sia quando questi sono rivolti ai suoi atti, vedi la polemica sulla Corte dei conti, sia nei confronti delle garanzie processuali e del controllo dei giudici”, ha spiegato a La Repubblica. La scelta sulle intercettazioni, secondo Azzariti, “rende indiretta, e forse anche più incerta, la cronaca giudiziaria” poiché “non potendo attingere direttamente alla fonte, cioè al testo dell’intercettazione, il giornalista sarà costretto a riportare fonti indirette, magari quelle delle parti interessate, con meno garanzie di trasparenza e certezza”. Il costituzionalista intravede una sottovalutazione da parte del governo: “Da un lato, si presuppone che la verità processuale e le garanzie nei confronti di terze persone finite nell’inchiesta – spiega – possano essere ascritte solo a monopolio dei giudici, dall’altro si sottovaluta fortemente il ruolo del giornalismo investigativo tanto a tutela degli imputati, quanto a garanzia della ricerca della verità processuale”.