Cronaca

Moby Prince, i familiari delle 140 vittime e la protesta sotto la nuova mega-nave di Vincenzo Onorato che coprirà la rotta Livorno-Olbia

Un presidio in porto, di fronte alla banchina alla quale è ormeggiato e dov’è stato varato il nuovo traghetto Moby Fantasy dell’armatore Vincenzo Onorato. È la protesta silenziosa organizzata a Livorno dalle associazioni dei familiari delle vittime del Moby Prince, il traghetto che la sera del 10 aprile 1991 – per cause ancora da chiarire a 32 anni di distanza – finì contro la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno, a poche miglia dal lungomare della città toscana. Nel disastro morirono 140 tra passeggeri e membri dell’equipaggio. Il nuovo mega traghetto di Moby coprirà la rotta tra Livorno e Olbia, la stessa che avrebbe dovuto percorrere il Moby Prince quella sera. Infatti i familiari delle vittime di quella strage – fu il più grave incidente marittimo in tempo di pace in Italia – si sono ritrovati al terminal passeggeri del porto toscano, vicino alla cinquecentesca Fortezza Vecchia, uno dei simboli di Livorno. Ma accoglieranno la Fantasy anche ad Olbia, domani. “Una protesta perché la strage del Moby Prince è stata derubricata come un banale incidente. Una protesta per tutte le azioni che hanno portato ad una falsa verità, con il silenzio di tanti che sapevano e sanno cosa è realmente successo quella maledetta notte” scrivono in una nota Luchino Chessa e Nicola Rosetti, che guidano rispettivamente le associazioni “10 aprile” e “140“.

E’ “un momento per far ricordare a tutti – spiega Rosetti, a nome dell’associazione 140 – che è ora di metter fine a questa battaglia, ma soprattutto è ora che parlino le persone che sanno di quella notte perché non si può aspettare una verità e una giustizia dopo 32 anni. Lo facciamo in memoria delle 140 vittime, lo facciamo in ricordo di Angelo Chessa e per dare forza a Loris Rispoli che in questi anni sta combattendo una battaglia sua privata”. Chessa era il figlio dell’allora comandante del Moby Prince, Ugo, ed è morto lo scorso anno a 56 anni: per tutta la vita ha combattuto col fratello Luchino per riaprire le indagini sull’immane incidente del 1991. Rispoli, alle prese con una lunga malattia, è il fratello di Liana, che la sera del disastro lavorava in uno dei negozi a bordo del Moby Prince. Sia Ugo Chessa sia Liana Rispoli morirono a bordo del traghetto: il superstite fu uno solo, il mozzo Alessio Bertrand.

La società armatoriale del Moby Prince all’epoca si chiamava Navarma ma era sostanzialmente l’antenata di Onorato. Sul caso del Moby Prince il Parlamento nelle ultime due legislature ha deciso di far lavorare due diverse commissioni d’inchiesta – prima una al Senato fino al 2018 poi una alla Camera fino all’anno scorso – che pezzo dopo pezzo non solo hanno smontato le (precarie) certezze messe insieme dalle sentenze della magistratura (si sono celebrati un processo negli anni Novanta ed è stata aperta e archiviata un’inchiesta nel 2010). Ma hanno composto un puzzle che ha fatto emergere anche molti nuovi interrogativi.

Resta un buco nella ricostruzione delle relazioni delle commissioni: perché la nave passeggeri compì una anomala virata che la fece finire contro la petroliera? Da qui – e non solo da qui – parte la richiesta delle due associazioni dei familiari delle vittime perché il nuovo Parlamento prosegua il lavoro iniziato con la legislatura nata nel 2013. La proposta di istituzione di una terza commissione d’inchiesta è stata presentata da Pietro Pittalis (Forza Italia), vicepresidente della commissione che ha indagato sul disastro fino al 2022. “Il lavoro per la ricerca della verità non è ancora finito” è la sintesi del suo pensiero. E’ anche quello dei familiari delle vittime che aspettano che la verità si componga del tutto da oltre trent’anni: il loro auspicio, dicono, è “che finalmente il prossimo anno porti alla luce una verità storica: non si può attendere altro tempo per mettere la parola fine”.

Sulla strage del Moby è ancora aperta da alcuni anni un’inchiesta – la terza – della Procura di Livorno ed è ancora pendente un ricorso alla corte d’appello contro la pronuncia di primo grado del tribunale civile, al quale i legali delle famiglie si sono rivolti – con una causa allo Stato – soprattutto per tentare di arrivare a una verità storica. Un po’ come è successo – dopo decenni – con Ustica.

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