Si fa presto a dire povero. Troppo per il decreto lavoro varato dal governo lo scorso primo maggio, che dal 2024 sostituirà, non per tutti, il Reddito di cittadinanza (Rdc) con l’Assegno di inclusione (Adi). E che già dalla transizione in atto quest’anno ha ingarbugliato le regole avviando persone della stessa età e nella medesima condizione economica a destini distanti tra loro. Perché invece di attendere l’avvio della nuova misura si è preferito sforbiciare da subito i loro sussidi con l’introduzione a dicembre in legge di bilancio di nuovi criteri, che distinguono i poveri tra “occupabili” e non anche a costo di sovrapporre nuove e vecchie regole, con esiti contraddittori se non addirittura discriminatori. Scelte che finiscono per rivelare ritardi e carenze strutturali, questa volta dei Servizi sociali che il governo costringe a una corsa contro il tempo sulla pelle di tanti poveri. E se la Banca Mondiale lancia l’allarme sull’enorme arretrato nella loro presa in carico, l’Ordine degli assistenti sociali denuncia che “i fondi per il potenziamento esistono, ma in Italia non siamo in grado di spenderli nemmeno quando sono già stati stanziati”.
La nuova misura di contrasto alla povertà arriverà il primo gennaio 2024, ma già dall’inizio di quest’anno l’erogazione del Reddito di cittadinanza è stata ridotta a sette mensilità. Salvi i percettori presi in carico dai Servizi sociali per i quali l’erogazione può arrivare fino al 31 dicembre, a decidere i destini degli altri è il criterio dell’occupabilità al centro dell’Assegno di inclusione, inserito il 29 dicembre nella legge di bilancio 2023 e, a differenza della nuova misura, in vigore già da quest’anno. Così i nuclei familiari con minori, disabili e persone con almeno 60 anni di età potranno ricevere il Rdc fino a fine anno, mentre chi non ha carichi di cura, se tra i 18 e i 59 anni di età è considerato occupabile, e da settembre potrà al massimo puntare ai 350 euro del Supporto per la formazione e il lavoro, per un massimo di 12 mesi non rinnovabili e a patto di essere più povero ancora e cioè con un Isee sotto i 6.000 euro (per il Rdc come per l’Adi è di 9.360 euro). Insomma, già ad agosto ci sarà chi non riceve più nulla. E poco importa se per molti sarà l’effetto di un cortocircuito che si poteva evitare. Quello tra i vecchi criteri previsti dal Rdc e i recenti introdotti dal governo che, a parità di condizione economica, dividono gli indigenti in base alla composizione del nucleo familiare come se i dati non avessero già smentito l’assunto per cui i poveri senza figli hanno maggiori opportunità occupazionali.
Le disposizioni transitorie del dl lavoro, che peraltro non si preoccupano nemmeno di stabilire un termine ultimo per la richiesta o il rinnovo del Rdc, lasciano molto al caso. Ma la povertà non è solo una condizione economica e le complicazioni burocratiche hanno un peso sostanziale nelle misure per contrastarla. Meglio fare un esempio in base a quanto riferito a ilfattoquotidiano.it da chi lavora nei centri per l’impiego della Lombardia. Prendiamo Mario (nome di fantasia), un uomo di 55 anni senza famiglia, percettore di Rdc in carico ai Servizi sociali perché, prevede la normativa del Reddito, negli ultimi due anni non ha sottoscritto alcun Patto di servizio personalizzato presso un centro per l’impiego (cpi), il documento che attesta disoccupazione, occupabilità e servizi da erogare ai fini del ricollocamento lavorativo. Essendo in carico ai Servizi sociali, Mario non è considerato attivabile al lavoro e potrà continuare a percepire il Rdc fino al 31 dicembre 2023. Ma il criterio dei Patti di servizio, come testimoniato dagli addetti ai lavori, è arbitrario perché per molti il Patto è l’unico modo per accedere a esenzioni come quella sanitaria. Per questo ne hanno firmato uno, niente a che vedere con la reale occupabilità delle persone. Nonostante le occasioni, nessun governo ha corretto la stortura.
Anche Paolo (altro nome di fantasia) ha 55 anni ed è un beneficiario mononucleo. Ha lo stesso Isee di Mario, ma prima di richiedere il Rdc aveva sottoscritto un Patto di servizio e tanto bastava per considerarlo occupabile e affidarlo a un centro per l’impiego. Non avendo minori, over 60 o disabili nel suo nucleo, quest’anno non potrà ricevere il Rdc per più di 7 mesi: ad agosto non avrà niente. E siccome non è abbastanza povero da avere un Isee sotto i 6mila euro, a settembre non potrà chiedere nemmeno il Supporto per la formazione e il lavoro. Ironia della sorte, anche Mario non avrebbe i requisiti per chiedere i 350 euro del Supporto, ma almeno per ora non se ne dovrà preoccupare perché a carico dei Servizi sociali. Così il criterio del Patto di servizio, che fino ad oggi ha creato distorsioni sul fronte delle prese in carico e dei servizi da erogare ma senza discriminare i poveri dal lato economico, sovrapponendosi alle nuove regole dà vita a disparità con le quali presto faranno i conti tante delle 300.000 persone che a luglio perderanno il Rdc e il relativo contributo per la casa, mentre le famiglie in condizione di povertà assoluta che vivono in affitto sono ormai 890.000.
Poco sembra importare al governo, concentrato sulla nuova misura al via da gennaio che alla fine ristabilirà l’equilibrio anche tra Mario e Paolo, escludendoli entrambi dall’Adi perché, scaduto il Rdc e archiviate le vecchie regole, se non hai carichi di cura a 55 anni sei “occupabile”, punto e basta. E siccome sono poveri ma non abbastanza, verranno esclusi anche dai pochi euro del Supporto per formazione e lavoro. In poche parole, la povertà sarà un problema solo loro. Della transizione in corso, però, in questo 2023 che per molti è già un calvario, non tutto si potrà sistemare. Stando a un recente rapporto della Banca Mondiale in collaborazione con la Ue e il ministero del Lavoro, nemmeno quelli in carico ai Servizi sociali possono stare tranquilli. Per continuare ricevere il Rdc oltre il nuovo limite dei 7 mesi, infatti, le disposizioni transitorie del dl Lavoro impongono ai Servizi sociali di inviare all’Inps le loro prese in carico entro lo scadere delle 7 mensilità. Di più: prima di correggere il tiro almeno in parte con un emendamento appena approvato in Senato in vista dell’ormai prossima conversione in legge del decreto, la data ultima era fissata per il 30 giugno. Dopo un’attenta radiografia dell’attività dei Servizi sociali, la Banca Mondiale ha fatto notare che le Analisi Preliminari (AP) dei beneficiari di Rdc da completare entro il periodo maggio-giugno sono 79.606. Mentre quelle completate arrivano appena a 14.292 (rapporto presentato il 17 maggio). “Oltre 159.000 nuclei perderanno il benefico da luglio perché non hanno carichi di cura (minori, disabili, over 60) o l’Analisi Preliminare completata e registrata”.
Con l’emendamento il termine ultimo è stato spostato al 31 ottobre, ma in ogni caso le prese in carico vanno completate entro il limite dei sette mesi: per i tanti col Rdc in scadenza a luglio significa che i Servizi sociali hanno appena un mese in più. Ce la faranno? “A livello nazionale – scrive la Banca Mondiale – le AP completate per mese devono aumentare di 6 volte rispetto alla media attuale”. Peggio: “In media, nelle grandi città il numero di AP da completare tra maggio e giugno deve aumentare di 15 volte“. Dopo aver passato anni a parlare del necessario e ormai tardivo potenziamento dei centri per l’impiego, ora che finalmente si avvia ad andare in porto scopriamo che ci eravamo dimenticati dei Servizi sociali in capo ai Comuni. E non è cosa da poco visto che la riforma farà passare da lì tutte le domande per il nuovo Assegno di inclusione, col rischio che da gennaio si crei un nuovo imbuto e ritardi che ancora una volta ricadranno sui poveri in attesa di un aiuto. Nello stesso report, la Banca Mondiale scrive: “Tra i 888.820 nuclei beneficiari del 2022, il 59% non ha mai completato l’Analisi Preliminare, nemmeno in anni precedenti al 2022, per un lavoro arretrato di 525.561 nuclei senza almeno un’Analisi Preliminare”. Ancora: “Dei nuclei beneficiari senza carichi di cura, il 58% non ha mai completato l’Analisi Preliminare (225.341) e il 79% non ha mai sottoscritto un Patto per l’Inclusione sociale (303.180)”. E infine aggiunge che dall’accoglimento della domanda all’avvio della presa in carico oggi ci vogliono in media 5 mesi: “Tempi ancora molto lontani dai 30 giorni previsti dalla normativa”. Tra le cause evidenziate nel rapporto, al primo posto c’è “la scarsità di operatori disponibili rispetto al numero di beneficiari”.
“Per abbattere i tempi serve innanzitutto centrare l’obiettivo di servizio che l’Italia si è data nel 2020: un assistente sociale ogni 4.000 abitanti”, commenta Gianmarco Gazzi, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali (Cnoas), ricordando che all’obiettivo sono stati vincolati 180 milioni. “E poi dare stabilità al servizio semplificando le assunzioni, perché non solo non riusciamo a fare le prese in carico, ma continuiamo a cambiare gli operatori sul territorio in un circolo vizioso dove chi è precario da una parte tenta il concorso da un’altra e così via”, spiega chi ha appena ribadito le stesse cose davanti alla commissione Affari sociali del Senato impegnata nella conversione del dl lavoro. Nell’Italia alle prese col Pnrr, compresi 200 milioni di nuovi fondi per potenziare i Servizi sociali, Gazzi fa notare che “non siamo in grado di spendere i soldi nemmeno quando sono già stanziati”. Lo dice riferendosi ai 630 milioni del Fondo povertà istituito nel 2017 anche per potenziare i servizi sociali territoriali di ciascuna Regione in funzione del Rdc. “Ci sono regioni che in tutti questi anni non sono riuscite a spendere più del 30% dei fondi loro destinati”. Risultato? “Ancora oggi abbiamo territori dove il rapporto tra residenti e assistenti sociali supera quello di 1 a 12.000“, risponde Gazzi. E ammette la preoccupazione per l’arrivo dell’Assegno di inclusione: “Ci vuole una norma che obblighi i comuni e gli ambiti territoriali a dotarsi di uno standard, anche a costo di ricorrere al commissariamento“. Un’ipoteca che grava sull’ennesima riforma sociale che mette il carro davanti ai buoi e il conto a carico degli ultimi.