Media & Regime

I giudici danno ragione a Ilfattoquotidiano.it: “Non diffamò Vendola con l’intercettazione in cui rideva per le domande sui tumori a Taranto”

Ilfattoquotidiano.it non diffamò Nichi Vendola con la pubblicazione, il 15 novembre 2013, dell’intercettazione in cui l’allora presidente della Regione Puglia rideva al telefono con il factotum dell’Ilva di Taranto, Girolamo Archinà, del video in cui lo stesso Archinà bloccava un giornalista tarantino che aveva chiesto conto a Emilio Riva delle morti per tumore tra la popolazione. Non era diffamatorio il titolo né lo era l’articolo e nemmeno il montaggio video della telefonata, che venne anche pubblicata integralmente. Inoltre, prima della pubblicazione, i giornalisti – rispettando le regole deontologiche – avevano cercato l’ex governatore per consentirgli di fornire la sua versione, ma non ottennero risposta.

A tre anni di distanza dalla sentenza di primo grado che aveva condannato la società, il direttore Peter Gomez, i giornalisti Francesco Casula e Lorenzo Galeazzi e il montatore Samuele Orini a risarcire Vendola con 50mila euro, oltre a dare evidenza della sentenza e a cancellare dalla Rete l’articolo e i due video con l’intercettazione, lo ha stabilito la Corte d’Appello di Bari (giudici Michele Ancona, Vittorio Gaeta e Paola Barracchia) ribaltando il verdetto e accogliendo il ricorso degli avvocati Caterina Malavenda e Vincenzo Giancaspro. Il lavoro de Ilfattoquotidiano.it è stato riconosciuto corretto e inoltre Vendola dovrà liquidare le spese legali sostenute in primo e secondo grado.

Nelle dieci pagine della sentenza d’appello, i giudici scrivono che la volontà dei giornalisti appare “incontestabile” ed era quella di “censurare criticamente la condotta” di Vendola che in pubblico “ha sempre sostenuto con grande determinazione il rispetto dei diritti individuali, specie quelli che attengono alla persona tanto da essere leader riconosciuto di un partito nazionale il cui nome faceva esplicito riferimento all’ecologia” e che “viene sorpreso a ridere dell’umiliazione, cui è stato sottoposto, del tutto arbitrariamente, un giornalista, nell’esercizio della sua funzione informativa”. La risata, sottolinea la Corte d’Appello di Bari, “peraltro, viene condivisa con colui che pacificamente rappresentava in loco i vertici dell’Ilva e, in particolare, proprio colui che il giornalista stava sottoponendo a domande ‘scomode’”.

Corretto, aggiunge la Corte d’Appello di Bari, era anche il titolo (“Ilva, risate per le domande sui tumori. Ascolta la telefonata choc di Vendola”) nel quale si diceva che Vendola avesse riso “per” le domande sui tumori e non “sulle”. “L’uso della preposizione ‘per’ non è di poco rilievo”. Ridere “per” le domande sui tumori “sintetizza esattamente quel che più esplicitamente viene detto nell’articolo e si desume dal video, ossia una domanda sui tumori e sui morti fatta dal giornalista, prima negati da Riva, bloccata da Archinà, con gesto che aveva fatto ridere il Vendola e l’Archinà e che aveva impedito la risposta”. Dunque, affermano i giudici, “appare corretto aver titolato” come fece Ilfattoquotidiano.it.

Inoltre “l’integrale conversazione, così come trascritta dalla polizia giudiziaria, messa a disposizione diretta dei lettori, risulta idonea a palesare il pensiero” di Vendola, “sicchè non si vede come il lettore possa, nel prendere visione del video, essere – come afferma il giudice di prime cure – ‘naturalmente portato a ritenere di stare ascoltando l’originale registrazione della telefonata, al più in una sua versione parziale'”. E nella “valutazione globale”, scrivono ancora i giudici, “non può in alcun modo sottacersi il dato assai significativo del comportamento tenuto dai giornalisti”, e riportato nell’articolo, che nel giorno precedente alla pubblicazione cercarono a più riprese Vendola senza ottenere risposta. “Trattasi – spiegano i giudici – di circostanza non contestata dal Vendola, con il quale il giornale evidentemente intendeva mettersi in contatto per consentirgli di fornire la sua versione dei fatti ed eventualmente favorire la rettifica di valutazioni errate, secondo una regola deontologica. Regola il cui rispetto, pienamente verificato nel caso di specie, costituisce un ostacolo insormontabile al riconoscimento della asserita volontà diffamatoria”.