La maison ha deciso di tornare a sfilare dopo tre anni nel calendario della Moda Uomo di Milano proprio per affermare l'importanza di ridefinire il concetto di mascolinità, epurandola da tutti gli stereotipi che la società occidentale vi ha associato
Quando il 29 maggio scorso Marco Mengoni si è presentato nello studio di “Che Tempo Che fa” con giacca, cravatta, camicia bianca e pantaloncini corti, il suo look aveva suscitato grande scalpore, con il conduttore Fabio Fazio che subito aveva commentato “lo stacco di coscia” del cantante. E se da una parte è vero che il pubblico della televisione è abituato ad un’estetica più tradizionale, è vero anche che i codici del guardaroba maschile sono in evoluzione. A guidare la rivoluzione è Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino, (autore, peraltro, proprio del discusso outfit di Mengoni su Rai 3), che ha deciso di tornare a sfilare dopo tre anni nel calendario della Moda Uomo di Milano proprio per affermare l’importanza di ridefinire il concetto di mascolinità, epurandola da tutti gli stereotipi che la società occidentale vi ha associato. Con la relativa deriva tossica che troppo spesso sale alla ribalta delle cronache.
Da qui la scelta di sfilare all’Università Statale di Milano, il luogo per antonomasia dove si formano le menti e quindi il più adatto per aprire un dialogo sul significato dell’essere uomini oggi, per “definire una muova mascolinità nella consapevolezza che il vero potere dell’uomo è essere libero anche di mostrare la propria fragilità”. La stringente attualità del tema trova conferme non solo nei commenti che hanno accompagnato, appunto, l’esibizione di Mengoni da Fazio, ma anche il dibattito che si è aperto durante la conferenza stampa di Piccioli post-sfilata. Per il direttore creativo della casa di moda i vestiti in senso stretto sono infatti la grammatica con cui esprimere il suo messaggio, motivo per cui una gonna indossata da un uomo altro non è se non il suo modo di dire che ognuno deve essere libero di esprimere appieno la propria individualità. Un metodo narrativo che fa della sua moda un lessico funzionale affinché, attraverso l’emozione spontanea suscitata dalla bellezza, si possa cambiare la percezione collettiva. Non a caso la collezione si chiama proprio Valentino The Narratives e ha come fil rouge alcune citazioni chiave del libro “A little life” (in italiano “Una vita come tante“, ndr) dello scrittore premio Pulitzer Hanya Yanagihar, mandato agli ospiti come invito.
“Ci hanno inculcato che l”abito fa il monaco‘, che un uomo di potere si veste in giacca e cravatta, ma la moda può e deve portare avanti un altro messaggio e un’altra immagine rispetto a quella idea di perfezione e di successo”, spiega Pierpaolo Piccioli ai giornalisti presenti. “La società occidentale vede ancora i maschi schierati in due ‘scatole’, due categorie molto stereotipate: machismo o sensibilità, completo scuro o paillettes e boa di piume. Ma si può essere libere di essere come si è senza estremizzazioni. Mettendo semplicemente una gonna sotto a giacca e cravatta“, sottolinea. E alle obiezioni replica: “Non è provocazione né dittatura estetica, quanto piuttosto un lavoro sul guardaroba maschile che porta ad una declinazione in chiave contemporanea della memoria dei gesti dell’uomo. Perché per cambiare il gusto e la percezione bisogna lavorare su ciò che le persone conoscono, sennò scatta quel meccanismo automatico di difesa che porta al rifiuto e alla chiusura. Gli uomini sono stati costretti a portare i pantaloni così come le donne le gonne: il vero cambio di percezione avviene quando cambi le regole dall’interno. Infatti nella collezione ci sono solo due gonne, se vuoi le metti, altrimenti no”. Ecco allora che tutto questo si traduce in piccoli dettagli che fanno la differenza, come un ricamo floreale al posto della cravatta o all’occhiello della giacca, simbolo per eccellenza della mascolinità; o come la frase di Yanagihar sullo scorrere del tempo (“siamo così vecchi che siamo diventati giovani di nuovo”) impressa su giacche, camicie, pantaloni e borse a simboleggiare l’importanza di una costante riflessione su come ogni giorno si possa cambiare idea.
Perché se l’incarnazione contemporanea è caratterizzata da paradossi – nella fragilità si può trovare una forza, nella dolcezza un potere, nell’imperfezione una perfezione -, analogamente, il passato può essere parte del presente: una collezione radicata nelle regole della sartorialità, nel rigore dei tagli che incontra la morbidezza e la consuetudine dell’accogliente denim. E nel tessuto si irradiano venature oro tipiche del Kintsugi, la tecnica giapponese di riparare le ceramiche rotte con l’0ro perché le crepe diventino ricchezza, l’imperfezione un punto di forza e la fragilità un focus. C’è vita vissuta in questi capi, c’è autenticità, originalità e cura. C’è la delicatezza dei petali di un fiore che sboccia a ricordare che gli uomini sono prima di tutto esseri umani. Ed è bello, e importante, che Piccioli abbia scelto proprio un’università per lanciare questo suo messaggio: sui social qualcuno ha ironizzato sul fatto che con questa sfilata finalmente anche gli influencer mettevano piede in un ateneo, ma la vera novità è stata che tanti studenti non di moda fossero presenti tra il pubblico dello show. Ragazzi che magari nemmeno si interessano di moda ma hanno avuto l’occasione di aprirsi ad un confronto di idee. “C’è stata conversazione tra studenti sul fatto che fosse giusto o meno sfilare qui in luogo pubblico perchè noi invece di affittare palazzo nobiliare abbiamo scelto università con donazione oe studenti di loro hanno manifestato diritto allo studio dicendo che non deve esser ansie da a sostenere lo studio e io sono d’accordo con gli studenti mie figli scuola pubblica da sempre noi abbiamo contribuito con 2% alle borse di studio“.