“Signori, almeno fate finta di giocare…”. Prima della clamorosa promozione ottenuta nel week-end vincendo i play-off di Lega Pro, l’ultimo salto di categoria in Serie B del Lecco risaliva a 51 anni fa ed era iniziato con questa frase pronunciata da Luigi Agnolin, uno degli arbitri più noti e stimati a livello nazionale. Il Lecco capolista era ospite del Seregno nell’ultima giornata di campionato: un punto avrebbe significato la promozione dei blucelesti e la salvezza dei brianzoli. Così fu: 0-0 e tutti in festa. E’ cambiato tutto, in primo luogo lo status del Lecco Calcio, all’epoca una società che meno di dieci anni prima era arrivata anche in Serie A, prima di finire inghiottita nella provincia calcistica più profonda, a cavallo tra professionismo e dilettantismo, ritrovatasi talvolta a lottare contro avversari ben più tosti di quelli da affrontare sul rettangolo di gioco: gli speculatori, i faccendieri, i vampiri destinati a prosciugare le già anemiche casse societarie.

Oggi ai piedi del Monte Resegone nessuno può più permettersi di far finta di giocare. Anzi, per una società di terza fascia a livello di monte stipendi (circa 1,3 milioni di euro, contro i 3 di Ancona e Foggia, i 5 del Pordenone e i 5.5 del Cesena – per citare le società superate ai play-off dal Lecco, ma le big di Lega Pro arrivano fino a 7 milioni), già il terzo posto finale in campionato, miglior piazzamento del club dal 1976, rappresentava un risultato di pregio. Soprattutto considerato che sette anni fa, proprio nel mese di giugno, si apriva l’asta giudiziaria per la vendita dei beni pignorati alla società Calcio Lecco, tra i quali l’autobus della squadra, i condizionatori delle sede societaria e le panchine degli spogliatoi dello stadio Ceppi-Rigamonti. Per il Lecco si era trattato del secondo fallimento negli anni duemila, dopo quello avvenuto nel 2002, che lo aveva visto precipitare in Eccellenza al termine delle sciagurate gestioni dell’ex presidente del Torino Cimminelli e del suo successore Pietro Belardelli. Quest’ultimo offrì al primo le azioni della Bezenet, una misteriosa società quotata su un listino minore del Nasdaq (l’Otc Bullettin Board, un mercato non regolamentato), i cui titoli promettevano rendimenti incredibili – si parlava di interessi del 160% in sei mesi – salvo trasformarsi rapidamente in spazzatura, trascinando con sé tutte le aziende nelle quali venivano utilizzati come garanzia finanziaria.

La difficoltà del calcio italiano nel tutelare le proprie società, specialmente quelle di provincia, dalle mire di personaggi torbidi si sono riviste a Lecco in occasione dello sbarco nel 2012 dell’italo-americano Giuseppe “Joseph” Cala, rimasto al vertice della società per soli 42 giorni in una delle gestioni più pittoresche e tragicomiche mai viste. Le ambizioni erano quelle di portare il Lecco “in Champions League” attraverso la sua Cala Corporation, società di cui nessuno aveva idea di quale fosse il proprio business core (“Non importa l’attività ma il fatturato che produce”, ribatteva Cala in conferenza stampa). Un traguardo però difficile da raggiungere quando il proprietario dormiva dentro lo stadio per risparmiare sui costi di alloggio o pagava un caffè con soldi falsi. Al posto dell’Europa sono invece arrivate la Serie D e, nel 2017, il secondo fallimento.

Meno di un mese dopo la vittoria del play-out contro l’Olginatese per evitare la retrocessione in Eccellenza (una partita umiliante per il Lecco, perché Olginate è un comune di 7mila abitanti sito proprio di fronte al capoluogo della provincia lecchese, da cui è separato solo dal fiume Adda), all’asta suppletiva fallimentare si è presentato, come unico offerente, l’imprenditore Paolo Di Nunno, attivo nel settore del gioco d’azzardo con la Elettronica Videogames, società per azioni che produce apparecchi e schede per le slot machine. Uomo di temperamento, polemico e sanguigno, Di Nunno è recentemente finito sotto i riflettori dopo essere stato espulso lo scorso 27 maggio per un’invasione di campo con tanto di bastone roteato all’indirizzo dell’arbitro (il presidente è reduce da un ricovero per un malore) per protestare contro un rigore assegnato al Pordenone nei minuti finali dell’andata del quarto di finale dei play-off, e avere di conseguenza abbandonato il terreno di gioco sulla propria carrozzina elettrica, fermandosi a parlare con il portiere avversario. Andando però oltre gli episodi di colore, la sua gestione è stata da incorniciare, con due salti di categoria in sei anni, soldi veri investiti nel club, nonché la capacità di scegliere le persone giuste per costruire una squadra capace di andare oltre i propri limiti, tecnici ma soprattutto economici.

E’ stato un Lecco molto italiano, nell’accezione positiva del termine. Tanta attenzione alla fase difensiva, compattezza, solidità ma anche buone individualità, perché nemmeno in Lega Pro si è destinati a fare molta strada limitandosi a parcheggiare il bus di fronte alla porta dei rivali. Come ogni racconto di provincia che si rispetti, anche in casa blu-celeste abbondano le belle storie. Dal tecnico Luciano Foschi, alla terza promozione in carriera (la prime però dalla C alla B), arrivato a stagione in corso in sostituzione di Alessio Tacchinardi in una realtà nella quale “tutti avevano paura di retrocedere”. Ai play-off ha sconfitto anche il suo maestro, Mimmo Di Carlo, che nella stagione 2011-12 lo aveva portato come vice in Serie A al Chievo. Storie come quella dell’uomo copertina Franco Lepore, 38 anni, una carriera iniziata da attaccante nelle giovanili del Lecce accanto a Bojinov e Pellè, mentre lavorava in una fabbrica che produceva porta saponette da bagno, e terminata da terzino goleador, con 3 reti tra andata e ritorno nella finale con il Foggia. Storie che sulla riva meno famosa (Manzoni a parte) dal Lago di Como aspettavano di vivere da mezzo secolo.

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