Entro il 2030, oltre il 60 percento della popolazione mondiale dovrà far fronte alla scarsità di acqua dolce. Le fonti idriche convenzionali – pioggia, neve e deflussi superficiali e sotterranei – potrebbero non bastare a soddisfare la crescente domanda idrica. Le fonti idriche non convenzionali, dalla raccolta dell’umidità atmosferica alle acque reflue e grigie, dalla desalinizzazione dell’acqua marina al trasporto a lunga distanza, possono effettivamente aiutare a dissetare le popolazioni assetate. Ma questo potenziale deve ancora essere compreso appieno e quantificato con precisione, valutandone gli effetti di retroazione e la sostenibilità ambientale e sociale.
Secondo una valutazione globale della desalinizzazione, condotta da UNU-INWEH qualche anno fa, la dissalazione produce ogni anno circa 35 miliardi di metri cubi di acqua dolce, assieme a quasi 52 miliardi di metri cubi di salamoia, il 50 percento più di quanto si pensasse in precedenza (v. Figura 1). Al di là degli enormi costi energetici, annullabili solo con le rinnovabili, questa tecnologia è una soluzione di ultima istanza se non interverranno decisive innovazioni nella gestione della salamoia e nelle opzioni per il suo smaltimento [Jones & alii (2018) The state of desalination and brine production: A global outlook, Science of the Total Environment, 657:1343-1356].
La gestione delle risorse idriche comporta prima di tutto conoscenza, quantitativa e qualitativa. Scegliere un’alternativa rispetto all’altra richiede una valutazione complessiva, non soltanto la santificazione tecnologica condotta da un Polifemo che traguarda soltanto un guadagno immediato. Nella migliore delle ipotesi, la valutazione della sicurezza idrica fornisce oggi stime grossolane a livello nazionale, che mascherano la variabilità della sicurezza idrica a scale più fini, quelle che interessano davvero alla gente.
I professionisti dell’acqua e le organizzazioni internazionali mettono l’accento sula necessità di dati affidabili e informazioni accurate e aggiornate, senza i quali è difficile prendere delle buone decisioni. La conoscenza è l’elemento essenziale di un futuro in cui le risorse idriche dovranno essere riconosciute e trattate come risorse preziose, pietre miliari della economia circolare.
La maggior parte della popolazione mondiale vive già ora in paesi in cui l’acqua è insicura. Su quasi 8 miliardi di persone, oltre 600 milioni (l’otto per cento) vivono in condizioni critiche e 5 miliardi e mezzo (più del settanta per cento) sono in una condizione di insicurezza idrica. Più di 4 miliardi vivono nella regione Asia-Pacifico, 1.340 milioni in Africa, 415 milioni nelle Americhe e quasi 66 milioni in Europa. Il problema sta diventando urgente per tutto il Sud Globale, ma neppure il Nord Globale — dove ogni statunitense che abita in città scarica cinque volte reflui più di una persona che vive in una città dell’India — è del tutto immune [cfr. UNU-UNWEH, Global Water Security 2023 Assessment, 2023].
La disponibilità di acque dolci naturali in abbondanza non garantisce necessariamente la sicurezza idrica. Molti paesi africani, delle Americhe e dell’Asia-Pacifico posseggono abbondanti risorse di acqua dolce. Nel contempo, però, hanno bassi livelli di accesso all’acqua, alla sanificazione e all’igiene; carenti trattamenti dei reflui e alti tassi di mortalità correlati alla mala gestione dell’acqua; basso valore economico e sociale dell’acqua; perdite ingenti a causa dell’impatto di inondazioni o siccità. Tutto accompagnato da dati spesso insufficienti, talora inesistenti, che sono il presupposto di analisi, politiche e medicine del tutto inappropriate.
Nonostante la ricchezza di acque dolci del nostro paese, in Italia la filosofia della gestione delle acque è frammentata e frantumata, affidata spesso all’incompetenza, preda degli stregoni da emergenza come non mai nella storia unitaria del paese. E sembra ispirarsi ai modelli meno virtuosi piuttosto che alle buone pratiche promosse dagli organismi internazionali.