Le donne percepiscono mediamente retribuzioni più basse dell’11% rispetto ai colleghi uomini. Il differenziale è già ampio all’ingresso nel mercato del lavoro: il 16% tra i diplomati, il 13% tra i laureati. E si accentua ancora di più con la maternità e con l’avanzare della carriera. Sono alcuni dei dati sul gender gap in Italia presentati nel rapporto della Banca d’Italia che illustra i risultati del progetto “Le donne, il lavoro e la crescita economica”. L’Italia, ricorda lo studio, è ultima in Europa per occupazione femminile, penultima per divario di genere occupazionale. L’occupazione femminile al 51,1% è inferiore di oltre 18 punti percentuali rispetto alla quota di uomini al lavoro nella fascia d’età tra i 15 e i 64 anni, registrando così il secondo divario di genere più ampio in ambito lavorativo tra i paesi dell’Unione Europea dopo la Grecia, dove si registrano oltre 19 punti percentuali di divario tra occupazione maschile e femminile.

Per quanto riguarda la maternità, nei due anni successivi alla nascita del primo figlio le madri occupate hanno una probabilità quasi doppia rispetto alle donne senza figli, di non avere più un impiego e, a quindici anni dal parto, le loro retribuzioni medie sono circa la metà (considerando le madri che continuano a lavorare). Un dato che era già stato messo in evidenza da precedenti studi ripresi dalla stessa Bankitalia, che lega esplicitamente questo enorme divario alla carenza di servizi.

Il differenziale retributivo si amplia ulteriormente più avanti nella carriera ed è maggiore tra i lavoratori con redditi più elevati. Tra i dipendenti del settore privato, a 64 anni di età, la differenza tra l’ultimo decile della distribuzione del salario unitario di uomini e donne è quasi il 30%. Per il primo decile è meno del 10%. Le donne occupate, inoltre, hanno più di frequente impieghi di tipo temporaneo (18% delle donne occupate alle dipendenze, mentre la quota si ferma al 16% per gli uomini) e part-time (31,7% delle lavoratrici, 7,7 dei lavoratori). Il part-time non è sempre una scelta delle donne: una lavoratrice a tempo parziale su due sarebbe disponibile a lavorare a tempo pieno, in modo da guadagnare di più. Si tratta la quota più elevata osservata tra i paesi dell’Unione europea.

“Il divario salariale tra uomini e donne si attesta in media intorno al 10%, un livello solo di poco inferiore a quello stimato per il 2012”, ha sottolineato Alessandra Perrazzelli, vice direttrice generale della Banca d’Italia. “Le carriere delle donne – continua Perrazzelli – sono particolarmente lente e discontinue” e la loro maggiore presenza nelle società quotate “non ha indotto significativi cambiamenti nella composizione dei vertici delle società sottoposte alla normativa sulle quote di genere”. Per lavorare sulla presenza femminile anche nei vertici delle banche non quotate, via Nazionale ha modificato le disposizioni di vigilanza sul governo societario delle banche, “sostenendo il valore della diversità”, rivendica la vice dg, ricordando l’introduzione della “quota minima per il genere meno rappresentato del 33% negli organi di amministrazione e controllo, da attuare con la necessaria gradualità a seconda delle dimensioni delle banche”.

Alcune tendenze positive, per quanto riguarda la partecipazione al mercato, ci sono: “Nel 2012 in Italia il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro era pari al 53,2 per cento, 20 punti inferiore rispetto a quello maschile; nei dieci anni successivi e è aumentato di 3,3 punti, il doppio di quello degli uomini, e nel primo trimestre del 2023 ha raggiunto il livello più alto dall’inizio delle serie storiche, il 57,3 per cento. Già da almeno un paio di decenni le donne sono circa il 56 per cento dei laureati ogni anno. Nel 2022 le laureate in discipline scientifiche e tecnologiche sono state circa il 20 per cento in più rispetto al 2012”. Ma, ha avvertito Perrazzelli, “i progressi registrati durante lo scorso decennio sono del tutto insufficienti: il tasso di partecipazione femminile si colloca ancora su un livello particolarmente basso nel confronto europeo, inferiore di quasi 13 punti percentuali rispetto alla media Ue. È ancora al di sotto di quel 60% che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona e dei traguardi impliciti nell’Agenda Europa 2020 che avrebbero comportato per l’Italia un sostanziale allineamento della partecipazione femminile alla media europea. Altri paesi, come ad esempio la Spagna, che negli anni Novanta partivano da condizioni simili a quelle dell’Italia, hanno fatto registrare tendenze significativamente migliori”.

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