Cinema

Houria, il destino di una danzatrice tra Scarpette rosse e cigno nero

di Davide Turrini

Scarpette bianche… macchiate di rosso. Galeotta fu la passione della lotta clandestina tra montoni per la giovanissima danzatrice Houria (la solita splendida Lyna Khoudri). Di giorno sulle tavole dei parquet a soffrire sulle punte dei piedi sanguinanti, di sera incappucciata a seguire quei poveri bestioni costretti ad incornarsi clandestinamente. Perché i sogni di gloria davanti al coreografo importante s’infrangono dopo essere stata rincorsa e aggredita dall’aggressivo proprietario di un caprone perdente che vuole indietro dei soldi. Pestata come dopo un incontro di boxe, anche se le ferite sono più per essere rotolata già da una scalinata modello Corazzata Potemkin, Houria si ritrova anca e caviglia distrutte, ma soprattutto il trauma le ha portato via la parola.

La rieducazione fisica e psicologica in un centro di riabilitazione con donne che hanno subito molti più traumi nell’anima che nel corpo la farà diventare più forte e determinata. Houria, diretto dall’algerina francese Mounia Meddour (Non conosci Papicha) mescola con leggiadra disinvoltura un po’ di Powell-Pressburger con un po’ di Aronofsky, di Scarpette rosse e di Cigno nero, di grazia performativa e spirito violento di strada. Anche se è la sorellanza tra donne, amiche, vittime a trasformare il racconto in un preponderante slancio di potere di autonomia femminile rispetto ad un orrido e violento mondo di uomini. Se non fosse, appunto, per il gruppuscolo di scommettitori clandestini e di due buffi idioti che sbirciano le ragazze che danzano da due finestrelle, Houria sarebbe un film senza uomini. Una traiettoria sinusoidale a livello umano e a rincorrere i movimenti magici, fluttuanti, sognanti a livello visivo che la protagonista compie con mani, braccia, tronco e bacino per riattivare la profonda passione per la danza. Dopo i primi venti minuti dove il ghiaccio sui piedi, le unghie sanguinolente che si staccano, le scarpine messe nel freezer sembrano essere l’abc del senso del discorso, dolore e sacrificio per la gloria artistica, il film della Meddour si immerge in un eloquente, variopinto, vitale gineceo, rifugio e rinascita per lo spirito e la consapevolezza dell’essere, emancipazione della donna tout-court. Il soundtrack tende a mescolare tradizione e innovazione, classicità non troppo esplicita (il solito Lago dei Cigni), contrappunti ritmici elettronici e echi berberi, fino ad utilizzare Felicità di Albano e Romina come canto della gioia. Infine Khoudri con quel suo musetto adjaniano concentra e cuce su di sé un groviglio sensoriale di dolore e rivalsa da giustiziera della notte. In sala dal 21 giugno grazie a I wonder.

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