Beppe Grillo un po’ scherzava, un po’ esagerava, un po’ si esasperava. Evocare contro di lui gli anni di piombo, il terrorismo e i cattivi maestri è fuori da qualsiasi misura che non sia quella del battibecco politicante.
Più interessante ascoltare e entrare nel merito. Nel contesto di una manifestazione del M5S in difesa del lavoro e contro la precarietà, dove non è mancata la riproposizione di ricette del passato, Grillo ha tratteggiato un futuro con tratti distopici, ma con qualche aggancio alla realtà: un’enorme quantità di posti di lavoro che potranno essere bruciati dall’intelligenza artificiale, alimentata da dati personali di grande valore economico che ciascuno di noi cede gratuitamente, in un mondo sempre più automatizzato. Non è mancata, da parte sua, la proposta. Oltre a un sistema di sovranità individuale sui dati personali, con eventuale possibilità di monetizzazione e un’azione congiunta contro i paradisi fiscali, al centro dell’intervento è stato il reddito di cittadinanza universale incondizionato, inteso come la battaglia delle battaglie (meritevole di passamontagna veri o virtuali) di fronte all’affermarsi dell’intelligenza artificiale.
Nella proposta di Beppe Grillo c’è una logica forte, condivisa anche da molti dalle parti di Silicon Valley: se non si vuole o può frenare la crescita esponenziale dei profitti della piattaforme digitali – che si moltiplicano a spese non solo dei salari dei lavoratori, ma anche dei profitti degli imprenditori della vecchia economia – l’unica strada è quella di una colossale redistribuzione sociale di parte di quei profitti.
È una proposta sensata, e al tempo stesso pericolosa.
Ha senso intervenire per riequilibrare uno scompenso economico troppo veloce per poter essere assorbito in tempo con la creazione di altri tipi di posti di lavoro o di benessere diffuso. In parte accadrà, ma è probabile che gli esclusi saranno più dei nuovi inclusi e, in ogni caso, se non dovesse accadere sarebbe poi troppo tardi per gestire le conseguenze e non essere travolti da una rabbia sociale che è già affiorata.
È però anche una proposta pericolosa, perché può portarci a una società divisa ancora più nettamente in due: non più “padroni e proletari”, o semplicemente “ricchi” e “poveri”, ma “produttori” e “assistiti”. Il fatto che alcuni dalle parti di big tech siano a favore del reddito di cittadinanza può essere interpretato come un segnale della preparazione di una resa, dove i vincitori (della globalizzazione, della digitalizzazione,…) comprano la pace sociale distribuendo risorse a un popolo maggioritariamente composto da sconfitti, rimasti ai margini, molti perché poco istruiti, ma anche molti con una laurea in tasca.
Ecco perché al “discorso del passamontagna” manca qualcosa.
Kai Fu Lee, ex capo di Google in China, indicò qualche anno fa una via alternativa, nel libro A.I. Superpowers: China, Silicon Valley and the new world order. Partendo dalla propria esperienza personale di salute – una diagnosi per tumore – Kai Fu Lee distingue chiaramente le competenze “dure”, quelle legate alla scienza e all’analisi di un’immensa mole di dati, e le competenze più umane, relazionali, fondate sull’empatia. Per il primo aspetto, l’intelligenza artificiale è pronta a dominare – già accade – sia in fase di diagnosi che di cure personalizzate. Per il secondo aspetto, la relazione umana di medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi e psichiatri, invece, rimarrà insostituibile.
Kai Fu Lee usa queste considerazioni come base di una proposta politica: valorizzare economicamente quei lavori e settori relazionali (benessere fisico e mentale, formazione, assistenza) che non saranno facilmente sostituibili dall’intelligenza artificiale; investire nella formazione permanente dei loro addetti e alzare i loro stipendi, stabilire nuove e più ambiziose soglie di servizi pubblici garantiti (formazione, conoscenza, benessere) e livelli essenziali di assistenza.
Si potrebbe obiettare che la proposta di Kai Fu Lee è sospetta di dirigismo. Ma sussidiare in modo pieno e incondizionato una parte consistente della popolazione non lo è di meno, anzi! In realtà, le due piste vanno percorse contemporaneamente, con modalità il più possibile rispettose delle dinamiche dell’economia di mercato, basate sul riconoscimento della competenza e persino del “merito”, ma dove il merito consiste anche nella soddisfazione dell’utente cittadino, non solo nella capacità di attirare profitto e dividendi azionari.
Rimane poi da porre un problema di metodo e di democrazia. Se il passamontagna era una boutade, e se il movimento dell’uno vale uno era forse un’altra boutade concretizzatasi in un partito dalla forma non dissimile agli altri, cosa resta alla fine di tutte queste boutade?
Forse è tempo – non necessariamente per Beppe Grillo, o comunque non solo per lui – di passare dalle parole ai fatti, e non su brigate e passamontagna, ma sulla promessa decennale mai attuata della “democrazia diretta”. L’espressione non è il massimo, perché la democrazia è democrazia, e perché semmai sarebbe meglio parlare di “democrazia deliberativa” o “democrazia partecipativa”, a meno che qualcuno non intenda soppiantare le istituzioni rappresentative, che invece vanno supportate e rivitalizzate attraverso il ricorso a strumenti innovativi ed efficaci di coinvolgimento popolare.
Gli strumenti possibili sono tanti, dalle assemblee civiche estratte a sorte ai referendum popolari, e in generale con l’utilizzo della rivoluzione digitale per la rivoluzione democratica, creando i big data della partecipazione e l’intelligenza artificiale al servizio del cittadino. L’importante è non esagerare, non tanto con le boutade, ma con la rassegnazione e il pessimismo. Anche perché – come ricordava Umberto Eco – da “apocalittici” a “integrati” il passo è breve. E allora: meno apocalittismo, più democrazia.