Perdere un rene per una partita di calcio, la posta in palio di una realtà degenerata in assurdo. Una partitella di calcio, un delirio fra genitori, una scarpata alla schiena a chi cerca di placarli. Partita sospesa.

Non basta più la sconfitta sul campo, mutare l’avversario in nemico, vincere anziché divertirsi: serve perdere fuori dal campo, mostrare il peggio di quanto possiamo insegnare ai figli, sbarazzarci di loro come bagaglio a mano depositato in campo. La vergogna è un atto d’orgoglio, non fa più scuola, è sporgere la mascella nella sfida all’insulto.

Le partite di calcio dovrebbero iniziare sempre con un minuto di (quasi) silenzio: i bambini in campo, schierati a centrocampo, a fissare il pubblico per cinquantanove secondi e al fischio dell’arbitro gridare in coro “Lasciateci giocare in pace”. Ribaltare il processo diseducativo, invertire la rotta: insegnare alle federazioni che la civiltà è un esercizio quotidiano, non l’urgenza di quando accade il peggio; che i più piccoli sono stanchi del fanatismo dei grandi (siano calciatori, allenatori o professionisti); che quello che accade in televisione ad ogni istante ha generato follower che aspirano ad essere l’illusione dell’influencer. Servono arbitri istruiti a interrompere il gioco per far respirare il cervello e un Var per mostrarci ogni volta di cosa siamo incapaci: vergognarci. Sulle gradinate scassate dei campetti in polvere (e non solo) fiorisce una cultura sbagliata.

E’ un po’ come la raccolta differenziata dei rifiuti: posso essere un cittadino virtuoso, separare questo da quello, ma se una federazione non emana dall’alto, costantemente, un codice di comportamento civile, non separeremo mai i rifiuti degli adulti dal futuro dei bambini. Scusate lo sfogo e, ripensandoci, a fronte di seimila lavoratori migranti morti ai mondiali in Qatar… che vuoi che sia perdere un rene per una partita di bambini.

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