Scrivo mentre sto attraversando in treno l’Ucraina – a circa 868 chilometri da Cracovia – per arrivare a Kiev dove è già iniziato il primo festival cinematografico Lgbt+. È da quando Bohdan Zhuk, l’organizzatore, ospite del Lovers Film Festival di Torino, aveva annunciato questo progetto di festival che pensavo di venirci. Penso che, per quanto sia ancora una edizione sperimentale e poco pubblicizzata a livello internazionale, si tratti comunque di qualcosa di importante e non solo per l’Ucraina.

In questa fase di guerra, con la legge marziale in vigore, non si possono fare i pride (che pure avevano cominciato a svolgersi anche a Kiev e in altre città ucraine). L’evento culturale, il festival cinematografico, diventa così una occasione anche politica e non solo culturale.

C’è anche qualcosa di autobiografico in questa mia scelta. Mia nonna Bella era nata a Kiev e, anche se non abbiamo fatto grandi discorsi in proposito, aveva visto e accettato con la sua saggezza di artista (danza classica) le mie relazioni omosessuali. Mi piace immaginare che il quartiere di Podil, dove c’è il festival e dove alloggerò, sia stato anche il suo, anche se non ne sono sicuro.

E poi c’è il tema delle unioni civili. Questa doppia parola, che avevamo inventato nel 1992 per lanciare la proposta di legge da piazza della Scala a Milano, ritorna oggi di attualità proprio nel dibattito ucraino. Sono ansioso di sentire dalla promotrice della legge, Inna Sovsum, e dagli attivisti ucraini, che probabilità ci sono che la legge passi. Ho appena visto che l’Estonia ha appena approvato il matrimonio egualitario. Probabilmente è un paese un po’ meno condizionato dai bigottismi rispetto all’Ucraina, ma mi capitò di partecipare a un Tallinn Pride che doveva essere protetto dai poliziotti.

L’organizzazione e l’esperienza del viaggio intanto hanno occupato la mia attenzione. Credo che possa essere di qualche interesse per chi legge, chissà mai che gli prenda la curiosità o lo slancio di venire per qualche giorno in Ucraina. Mi sono ritrovato a viaggiare da solo perché alcuni che sembravano o erano interessati hanno rinunciato. Indubbiamente c’è paura. Ma non bisogna dimenticare che migliaia e migliaia di persone – ovviamente quasi tutte ucraine, ma non solo – ogni giorno vengono o tornano in questo paese sotto attacco. Persone comuni: donne, bambini, anziani.

La maggior parte passa da Przemysl, come ho fatto io. Cittadina di confine, provinciale ma ormai inevitabilmente cosmopolitica, con una stazione collegata direttamente con varie capitali: non solo Cracovia e Varsavia, ma Praga, Berlino, Graz e ovviamente Leopoli e Kyev. Przemysl ha un centro storico molto bello ma dopo le 22 trovi solo da mangiare kebab fatti da ragazze ucraine. Per l’Ucraina partono treni ucraini, occhio che le carte di credito italiane non fanno pagamenti sul conto delle ferrovie ucraine (ho dovuto far intercedere un amico a Kiev).

Il viaggio via aereo a Cracovia, e poi via bus o treno a Przemysl, si svolge in una specie di repubblica delle donne (il perché lo sapete: gli uomini tra i 18 e 60 salvo eccezioni non possono espatriare). Passavano felpate di notte verso la stazione, si sentiva il rollio dei trolley sul pavè storico. Solo dopo la frontiera, in Ucraina si ricominciano a rivedere un po’ di uomini. È un viaggio normale, con un po’ di ritardo (un’ora ma stiamo recuperando) in cui ci si occupa della coda per i panini (hot dog) dell’aria condizionata che ogni tanto si interrompe, della connessione che va e viene. Ma tutto funziona e il viaggio nella parte ucraina alla fine non durerà più di 11 ore. E ho anche trovato una vicina giovane e moderna, collaboratrice di Bloomberg che pensa che le unioni civili alla fine passeranno perché “non siamo mica la Russia”.

Attorno a noi il paesaggio è quasi tutto pianeggiante, campi, alberi, boschetti. Intuisco una valanga di more selvatiche (questa non è la zona dei campi minati). Insomma è un viaggio che anche un anziano italiano può fare da solo. Vengo a vedere l’atmosfera del festival, che prevede film da tutto l’Occidente. Non credo che in due giorni chiarirò le mie confuse posizioni sui dilemmi etico-politici dell’invio di armi, né che ciò sia rilevante. Posso, invece, verificare con me stesso e con chi mi conosce che venire a Kiev è una cosa fattibile e che nel suo piccolo è una dimostrazione di solidarietà.

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