Chiedono crescita, sostengono il cambiamento ma si tratta spesso di visioni teoriche. I piccoli imprenditori frequentemente dimenticano che questi obiettivi si realizzano solo ed esclusivamente tramite le persone. Puoi avere il miglior impianto produttivo, la più sofisticata tecnologia, il più bel prodotto, ma se non sai lavorare su testa, cuore e pancia dei tuoi collaboratori (che non sono solo braccia e gambe), non sarai mai in grado di garantire continuità (il singolo exploit può capitare) ai tuoi risultati.
Nelle piccole imprese a gestione familiare, nel contesto attuale, ci sono persone che danno il massimo e più non potrebbero dare. Con un termine tecnico preso in prestito dal francese sono persone “plafonate” (da: “plafond” = soffitto) e cioè la loro prestazione lavorativa, manuale o intellettuale è al massimo (“è arrivata al soffitto”) sia come risultato quantitativo che qualitativo.
Un dirigente d’azienda è “plafonato” quando il suo impegno sul lavoro è pieno, la sua presenza è totale, la sua attenzione ai collaboratori è encomiabile. Ma le sue decisioni sono scontate, sono prevedibili e il suo modo di affrontare le problematiche gestionali non è mai innovativo.
Un impiegato o un operaio sono “plafonati” quando sono arrivati al massimo della loro professionalità, esercitano il loro mestiere con accuratezza e affidabilità e hanno prestazioni di alto livello. Ma se si chiede loro di fare un altro lavoro (più difficile o più facile non importa), si rifiutano e non dimostrano alcun interesse ad acquisire nuove conoscenze.
Il dirigente, l’impiegato o l’operaio di cui sopra non hanno potenziale, non hanno cioè quell’energia di riserva che permette loro di acquisire cognizioni nuove, di praticare nuove modalità di lavoro, di imparare competenze e comportamenti nuovi. Di essere cioè innovativi, nel sapere, nel saper fare e nel saper essere.
Per contro, ci sono persone piene di iniziativa, molto critiche contro i metodi e le idee tradizionali, assetate di cognizioni nuove, curiose di imparare professioni diverse.
Il dirigente con potenziale prova ad affrontare gli stessi eventi con criteri nuovi; l’impiegato o l’operaio con potenziale sono flessibili e disposti a cambiare mestiere o metodo di lavoro. Ma se le nuove idee non sono realizzabili e le iniziative non danno risultati, se le nuove conoscenze non servono all’organizzazione, se l’esercizio di nuove professioni o di nuovi mestieri dà prestazioni di bassa qualità, allora è meglio che questo tipo di potenziale non venga esercitato perché trattasi di potenziale negativo.
Le organizzazioni in condizioni di ambiente stabile, di mercato stabile, di prodotti e di tecnologie standard non hanno bisogno di collaboratori con potenziale. Farebbero solo danni. A esse basta avere persone ad alta prestazione e cioè ad alta potenza di erogazione sul lavoro.
Ma se l’ambiente cambia continuamente, il mercato assume caratteristiche imprevedibili, i prodotti (o i servizi) standard non sono più appetibili, l’alta professionalità, la capacità di dare ottimi risultati standard, l’applicazione di criteri decisionali e di pratiche operative sempre uguali non bastano più. In tal caso senza rinunciare a chiedere “alte prestazioni”, le organizzazioni devono chiedere (e cercare) individui con alto potenziale positivo.
Nell’attuale contesto economico di grande difficoltà gestionale, se si dovessero “leggere” le piccole imprese secondo lo schema indicato, l’esperienza mi suggerirebbe la seguente ripartizione ideale.
Purtroppo i talenti (intesi nella concezione classica di “geni”), così come sostenuto qualche settimana fa, nelle piccole imprese non arrivano e le assunzioni non sono quasi mai finalizzate ad analizzarne l’alto “potenziale”. Ragion per cui i piccoli imprenditori si ritrovano a gestire spesso un 80% di mediani e un 20% di s-collaboratori.
Senza dimenticare che in queste percentuali ci sono anche loro e i loro familiari.