Nella seconda metà del XIX secolo l’Italia fu colpita da una tremenda sequenza di alluvioni e frane che ferì, innanzitutto, il simbolo della nazione, appena unificata. L’alluvione romana del 1870 fu il castigo di Dio. E per cinque lunghi anni ci si interrogò se, per mettere in sicurezza la capitale, si dovessero costruire dei muraglioni o deviare il Tevere, come sosteneva con veemenza il generale Garibaldi. Fu scelta la prima soluzione, progettata dall’ingegnere Raffaele Canevari, già progettista dell’impianto di adduzione idrica di Firenze.
Due anni dopo, le rovinose alluvioni del 1872, primaverile e autunnale, misero in ginocchio la Media e Bassa pianura padana. La gravità degli eventi, le emozioni e le polemiche forzarono l’agenda governativa sulla sicurezza idraulica, generando la Commissione presieduta dell’ingegnere Francesco Brioschi del Politecnico di Milano. Sette anni di lavoro produssero un monumentale studio sul regime idraulico del Po, un prodotto scientifico e tecnico eccezionale e avanzato per i tempi, poi imitato nel resto del mondo. Fu la base conoscitiva essenziale per i successivi interventi: nell’arco di tempo che va dal 1801 al 1876, lungo l’asta del Po si erano contate ben 214 rotte d’argine, mentre dal 1918 a oggi le rotte sono state soltanto 6, tre delle quali durante la piena del 1951.
Gli ingegneri idraulici hanno garantito la sicurezza idraulica del paese? La risposta è negativa, anche perché la sicurezza è una chimera, ma esiste solo una possibile e doverosa mitigazione del rischio, riducendolo a termini accettabili. Il loro lavoro ha però ridotto in modo significativo la pericolosità naturale. Per contro, il rischio non è diminuito, bensì aumentato per via della crescente esposizione, da un lato, e della inerzia a intervenire sulla vulnerabilità dei beni e soggetti a rischio, dall’altro.
Dopo le catastrofi alluvionali del 1966 e del 1968, la Commissione De Marchi mise a punto in tre anni un enorme studio di indirizzo per dare vita a un programma trentennale di mitigazione del rischio alluvionale e di frana. De Marchi del Politecnico di Milano e il suo vice, Giulio Supino dell’Università di Bologna, erano ingegneri idraulici, ma la Relazione indicava la necessità di integrare gli studi idrologici e idraulici con quelli geologici e geomorfologici. Soltanto 19 anni dopo, una legge del 1989 inquadrava in un disegno organico l’intervento pubblico per la difesa del suolo. La voracità autonomistica delle Regioni fece miseramente fallire quel disegno, assieme all’impatto di una normativa europea ispirata ai grandi bacini mitteleuropei, quale emerse all’inizio del millennio per via dell’insipienza della nostra rappresentanza istituzionale, tecnica e scientifica, in ambito europeo.
Gli ingegneri idraulici non ci azzeccano? Probabilmente è vero, se a distanza di un secolo ci hanno risbattuto la testa invano. O, perlomeno, questa è la vulgata contemporanea, quando istituzioni e media evitano accuratamente la categoria, affidandosi a pareri ben più affidabili e competenti. E, soprattutto, evitano con cura gli studiosi italiani più noti e apprezzati nel mondo, giacché dopo quelle statunitense e inglese la scuola idrologica italiana della mia generazione è considerata una eccellenza. Fedele a questa ispirazione, si terrà il 5 luglio a Roma la Conferenza nazionale sul clima 2023: “Alluvioni e siccità. Quali strategie per affrontare la crisi climatica?” organizzata da Italy for Climate, con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.
Gli organizzatori rimarcano giustamente che “dopo l’alluvione che ha devastato l’Emilia Romagna e le siccità prolungate che sempre più spesso tornano a colpire diverse aree del paese, con danni enormi per l’economia e le persone, è ora di prendere coscienza” eccetera eccetera. Ma ci rassicurano che “insieme ad esperti, rappresentanti del mondo delle imprese e delle istituzioni parleranno delle proposte, delle tecnologie esistenti e delle innovazioni che potranno aiutarci ad affrontare questa sfida non più rinviabile”. Gli ingegneri idraulici attendono con fiducia qualche illuminazione dall’esito delle tre ore previste dall’agenda dei lavori e dal successivo networking lunch: il tempo è tiranno ma è anche denaro, bisogna usarlo con parsimonia.
Invero, idraulici e idrologi si accontenterebbero anche soltanto di qualche pour parler illuminante da conservare con cura nella propria scatola degli attrezzi, perché sono abbastanza sicuri che nel 2070 avranno una terza possibilità.