Trieste è uno dei principali punti di arrivo per chi percorre la rotta balcanica. Non per forza la destinazione finale. Le persone giunte nel capoluogo del Friuli-Venezia Giulia che intendono proseguire sono il 60%, più spesso verso altri Stati europei. Lo dichiarano i migranti nelle testimonianze alla base del rapporto “Vite abbandonate”, redatto dalla Rete solidale che unisce le organizzazioni attive in città sui temi dell’accoglienza, della tutela legale e dell’assistenza umanitaria, attività che nel 2022 hanno intercettato 13mila persone su un totale stimato in circa 15 mila arrivi. “Innegabile la tendenza all’aumento, come dimostrano i numeri del 2023 in cui potremmo toccare i 20mila arrivi”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), tra gli enti che hanno lavorato al rapporto. “Ma non si possono definire numeri problematici: 35-40 persone al giorno nel 2022, di cui oltre la metà prosegue, a volte senza fermarsi nemmeno una notte, mentre chi presenta domanda d’asilo non supera la dozzina”. Eppure, da oltre un anno, a Trieste centinaia di migranti non hanno riparo, dormono per strada, stazionano nelle piazze, famiglie e minori non accompagnati compresi. Per questo il rapporto si chiama “Vite abbandonate“. Perché ricostruisce e denuncia un’emergenza che non ha ragion d’essere ma c’è. “Con poco le istituzioni avrebbero potuto evitare una situazione che si è preferito non gestire fino a definirla ‘degrado'”. Parole del primo cittadino Roberto Dipiazza, sindaco di centrodestra in una regione guidata dal leghista Massimiliano Fedriga mentre al governo c’è ora Giorgia Meloni.
Schiavone, i conti non tornano?
L’anno scorso si è trattato di un migliaio di arrivi al mese, con i massimi toccati tra l’estate e l’autunno per una media di 65 arrivi al giorno nel quarto trimestre. Ma come dimostrano le 5.000 domande d’asilo presentate qui lo scorso anno, il 60% continua il viaggio, utilizzando trasporti pubblici e con Milano che fa da principale snodo per le altre mete, in Italia e all’estero. Si tratta di persone che non sempre si fermano e se lo fanno è al massimo per una o due notti. Per l’Italia si tratta di obblighi assistenziali ridotti: la prima assistenza, informazioni sui loro diritti, cure sanitarie in seguito al difficile viaggio, la possibilità di lavarsi, cambiarsi, sfamarsi, riposarsi in un luogo riparato. Insomma, il cosiddetto servizio di bassa soglia: 100 posti letto eviterebbero di farli finire per strada. Invece sulla strada ci finisce anche chi ha presentato domanda d’asilo e ha per legge il diritto all’accoglienza.
Perché se i numeri sono questi?
4.800 i richiedenti nel 2021, 5.100 l’anno dopo. Ma nel 2022 abbiamo assistito a una pessima gestione fino al blocco dei trasferimenti verso le altre regioni. Tuttora, con i trasferimenti che mancano ormai da settimane, sulla strada ci sono 270 persone, e parliamo solo di richiedenti. Tuttavia, va ribadito anche a benefico della cittadinanza e dell’opinione pubblica, non è una situazione tale da non potersi gestire in una città di medie dimensioni come Trieste. Dove invece ci vuole più di un mese e mezzo prima che un richiedente abbia un tetto e durante l’inverno ha significato sofferenze inutili. Se l’accoglienza dei richiedenti funzionasse secondo norma, con un accesso veloce, anche l’attuale servizio di bassa soglia per chi è di passaggio non sarebbe così distante dalla copertura dei bisogni. Il paradosso? Chi non è intervenuto rafforzando i servizi adesso vuol fare la lotta al “degrado”. Ho risposto pubblicamente al sindaco: “Quanti bagni hai installato?”
Arrivi, sbarchi, più dell’anno scorso. Ma il numero degli stranieri in Italia, irregolari compresi, non è cambiato negli anni.
Diciamo intanto che se a Trieste le persone fossero sistemate quasi nessuno si accorgerebbe che esistono. Mentre è chiaro che un numero non rilevante diventa tale se non te ne occupi. E nella percezione pubblica diventa abnorme e molti diventano immediatamente disponibili al messaggio “sono troppi”. La mancata accoglienza diventa macchina della propaganda, col paradosso che i principali accusatori sono gli stessi responsabili della mancata gestione. Se ben orchestrato, il “sono troppi” funziona sempre, sia quando sono di più che quando sono di meno. Sul confine italo-sloveno ha iniziato a funzionare con la strategia delle riammissioni informali in Slovenia, basate su un accordo tra polizie di frontiera mai ratificato dal Parlamento e abbandonate dopo un’ordinanza del tribunale di Roma. Questa la mia opinione: quando hanno dovuto interrompere le riammissioni in Slovenia hanno utilizzato la mancanza di accoglienza. Insomma, credo che l’abbandono di cui parliamo nel rapporto sia stato largamente pianificato.
Piantedosi ha rivendicato le riammissioni, intenzionato a riprenderle. Nel frattempo lungo la rotta qualcosa è cambiato.
Intanto il primo gennaio scorso la Croazia è entrata nell’Eurozona. Da allora ha utilizzato una strategia doppia: avanti coi respingimenti illegali sia verso la Bosnia che la Serbia, come confermano i rapporti degli organismi che monitorano i confini. Allo stesso tempo, aumenta la tendenza a far defluire le persone penetrate nel territorio, a farle proseguire. Di conseguenza accade lo stesso in Slovenia, che ora si mostra meno interessata a collaborare alle operazioni di respingimento a catena. Da quest’anno la maggiore mobilità ha aumentato anche le domande d’asilo in Slovenia, così come in Italia. Attenzione però, si tratta di equilibri fragili che possono cambiare ancora, né si può dire che i respingimenti illegali non proseguano.
Il Consiglio Ue spinge sulla collaborazione coi Paesi extra Ue, anche per espulsioni e riammissioni.
L’approccio del Consiglio punta a cercare Paesi non lontani dall’Unione e utilizzarli per il confinamento dei rifugiati che non vogliamo. La strategia viene già perseguita sul piano fattuale, anche lungo la rotta balcanica, con collaborazioni opache, accordi non scritti eccetera. Ora si tenta di dare formalità a tutto questo, cercando di rendere questa volontà compatibile con le norme Ue. E lo si vuol fare stravolgendo il concetto di Paese terzo, giustificando le espulsioni o addirittura l’inammissibilità delle domande d’asilo con la presunta “connessione” tra la persona e lo Stato extra Ue. Basta che tu ci sia passato, magari perché sei stato accampato in Bosnia mentre tentatavi per innumerevoli volte di passare oltre e raggiungere l’Europa. Prendiamo un afghano che nella sua fuga ha attraversato dieci paesi: ne scelgo uno, quello con cui riesco a fare un accordo economico, dico che il rifugiato ha un legame con questo Paese, la “connessione”, e tanto basta per farmi dichiarare inammissibile la sua domanda. E così lo confino.
Nell’ultimo periodo del 2022 tre arrivi a Trieste su quattro sono stati di cittadini afghani.
La tendenza è in aumento ed è la conseguenza del peggioramento delle condizioni di vita e di sicurezza in Afghanistan, paese in cui si stima che 28 milioni di persone abbiano bisogno di aiuti umanitari e che il 97% della popolazione sia a rischio di povertà. Per queste persone, cui è negata la libertà democratica nel proprio Paese, la nostra Costituzione prevede che il diritto d’asilo venga riconosciuto nel territorio della Repubblica italiana, non altrove. Se queste persone hanno i requisiti che le rendono titolari di un diritto d’asilo, questo diritto devono poterlo esercitare in Italia, non in un Paese terzo. E la strategia del confinamento impedisce di godere di un diritto come previsto dalla Costituzione. Paradossale che sia stato proprio il ministro italiano a proporre alla Ue una cosa che il nostro Paese non può fare, e cioè eliminare il diritto d’asilo trasferendolo in un altro Stato. Al contrario abbiamo abbandonato la battaglia per la ripartizione delle quote. Mentendo sapendo di mentire, il governo dice che ci occuperemo di meno domande e che ci sarà un carico minore sul Paese. Ma l’aumento delle procedure di frontiera e la rinuncia alla redistribuzione di rifugiati e richiedenti aumenteranno le domande d’asilo presentate: un effetto micidiale per l’Italia.