Alla vigilia del Consiglio europeo la premier Giorgia Meloni appunta alla bacheca i nomi dei suoi nuovi avversari: la Banca centrale europea e il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni. Attacchi a freddo o perlomeno non agganciati alla stretta attualità. Una sfida ai vertici delle istituzioni europee che forse ha più valore per il dibattito interno che non davvero nella dialettica con Bruxelles. E per “interno” si intende in particolare la stessa maggioranza, alle prese per esempio con un altro tema europeo, cioè la mancata ratifica del Mes da parte dell’Italia, unico Paese dell’Unione. Ma che ha l’effetto di inaugurare una stagione di scontro con gli organismi europei con i quali per il momento aveva preferito dialogare.
Nel giorno delle comunicazioni in vista del vertice Ue la presidente del Consiglio prima, alla Camera, va all’attacco della Bce, in scia di Matteo Salvini che aveva espresso gli stessi concetti più volte nelle scorse settimane e dell’altro vicepremier Antonio Tajani che li aveva ripetuti ieri. “L’inflazione è tornata a colpire l’economia – dice Meloni in Aula – è un’odiosa tassa occulta che colpisce soprattutto i meno abbienti. È giusto combatterla con decisione ma la semplicistica ricetta dell’aumento dei tassi intrapresa dalla Bce non appare agli occhi di molti la strada più corretta”. Il rischio, continua, è che “l’aumento costante dei tassi sia una cura più dannosa della malattia“. Poche ore dopo, al Senato, nel momento delle repliche, la presidente del Consiglio se la prende con il commissario Gentiloni che è vero che da una parte chiede un giorno sì e un giorno no di “fare presto” sulle eventuali modifiche al Pnrr, ma dall’altra in questi primi 8 mesi di governo Meloni è apparso più una sponda per l’esecutivo che non una spina nel fianco. I ritardi sul Piano di recupero con i fondi europei sono sotto gli occhi di tutti. Ma i ritardi non sono nostri, dice nella sostanza Meloni, accusando i governi precedenti, i partiti che li sostenevano e appunto Gentiloni. “Mi fa specie – scandisce nell’Aula del Senato – che i partiti che di fatto hanno steso il Piano sul quale oggi si lavora e che in alcuni casi richiede da parte della Commissione europea delle modifiche, siano anche quelli che se la prendono con l’attuale governo. Mi fa specie anche che lo faccia il commissario Gentiloni, che immagino il Piano lo avesse letto prima e che oggi chiama in causa il governo dicendo che bisogna correre e fare di più, ma se si fosse vigliato un po’ di più in passato oggi si farebbe più velocemente”. La capa del governo definisce il piano italiano “il più complesso di tutti“. Per questo, aggiunge, “è bene che questo lavoro sia fatto con serietà, quindi non ci sono ritardi. C’è semplicemente un lavoro serio che stiamo cercando di fare senza fare polemica, perché avremmo potuto fare polemica, invece non abbiamo fatto polemica, noi ci siamo messi ai remi e abbiamo cominciato a lavorare. Per mandare avanti un piano che è importante per l’Italia, anche sugli aspetti che potevamo non condividere complessivamente”. E così tenta di aprire una polemica rivendicando di non aver fatto polemica.
Resta da capire la ragione di questa uscita, proprio oggi. Certo c’era bisogno di cercare di contenere almeno per il momento la questione del voto di ratifica sulla riforma del Mes che mette in crisi gli equilibri della maggioranza da qualche settimana. A verbale della giornata parlamentare resta che la risoluzione della maggioranza è stata approvata dall’Aula, ma nello stesso tempo qua e là gli indizi sui rapporti tra i partiti di centrodestra non sono granché: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti mentre parla la premier è seduto tra i banchi della Lega e non a quelli del governo, i deputati leghisti – mentre i colleghi di Fratelli d’Italia si spellano le mani – restano immobili quando la l’immobilità dei deputati leghisti a fronte delle ovazioni dei Fratelli d’Italia proprio sul passaggio del discorso dedicato al fondo salva-Stati e ancora le dichiarazioni del vicesegretario del Carroccio Andrea Crippa che in sostanza butta il pallone nel campo di Palazzo Chigi: “Ci dica lei cosa dobbiamo fare”. Non c’è male come inizio di (sterminata) campagna elettorale per le Europee dell’anno prossimo.
Le tensioni sul Mes erano iniziate qualche giorno fa quando era uscito un parere del capo di gabinetto di Giorgetti secondo il quale il via libera alla riforma del fondo salva-Stati non produrrebbe “nuovi o maggiori oneri” e anzi, addirittura, potrebbe portare a un miglioramento del rating dell’Italia. Meloni la deve prendere più larga, almeno per oggi: “Non reputo utile all’Italia alimentare una polemica interna sul Mes – sottolinea la presidente del Consiglio – L’interesse dell’Italia è affrontare il negoziato sulla governance europea, dove si discuta nel complesso nel rispetto del nostro interesse nazionale. Prima ancora di una questione di merito c’è una questione di metodo su come si faccia a difendere l’interesse nazionale“. La “polemica interna” – tradotto – è quella soprattutto dentro la maggioranza di governo.
Il ragionamento completo di Meloni è che “è una partita complessa, sulla quale io credo che l’Italia abbia obiettivi in questo caso condivisi dalla gran parte delle forze politiche e che sono stati oggetto di sostegno bipartisan già con i governi precedenti. Per questa ragione, lo voglio dire con serenità ma anche con chiarezza, non reputo utile all’Italia alimentare in questa fase una polemica interna su alcuni strumenti finanziari, come ad esempio il Mes. L’interesse dell’Italia oggi è affrontare il negoziato sulla nuova governance europea con un approccio a pacchetto, nel quale le regole del patto di stabilità, il completamento dell’Unione bancaria e i meccanismi di salvaguardia finanziaria si discutano nel loro complesso, nel rispetto del nostro interesse nazionale. Prima ancora di una questione di merito c’è una questione di metodo su come si faccia a difendere l’interesse nazionale italiano”. Un giro di parole che assomiglia molto a un rinvio a tempi migliori, ammesso che arriveranno. Secondo il Pd (per bocca dell’ex sottosegretario alle politiche comunitarie Enzo Amendola) tutto questo significa che “al di là dei toni, è evidente che lo ratificheranno, decidessero quando. E penso, tra l’altro, che in un negoziato non aver ratificato sia un elemento di debolezza non di forza”.
Bce, Gentiloni, Mes sono temi che si tengono insieme in una possibile lettura dell’intervento della presidente del Consiglio. Da una parte il ribaltamento dell’agenda politica interna su temi a proprio favore, specie nei giorni dell’imbarazzo per le performance imprenditoriali della ministra del Turismo Daniela Santanchè. In più la critica alla banca centrale europea – a prescindere dal merito – può essere letta anche come un modo di mettere le mani avanti, ora che qualche indicatore economico – in un contesto positivo complessivamente – comincia a scricchiolare in Italia ma anche in Europa (con la recessione tecnica già conclamata). Della serie: ve l’avevamo detto.
Per il resto il discorso della premier conferma la linea di politica estera e in particolare sulla guerra in Ucraina. “La chiara posizione del governo italiano è riconosciuta e apprezzata e dai nostri partner e rafforza il peso della nostra nazione” dice Meloni che ribadisce il sostegno all’ingresso di Kiev nell’Unione europea. “Se non avessimo aiutato gli ucraini, come anche qualcuno in quest’Aula suggerisce – rivendica la presidente del Consiglio – ci troveremmo in un mondo in cui alla forza del diritto si sostituisce il diritto del più forte, un mondo senza regole se non quella delle armi”. Serve una “pace giusta e duratura nel pieno diritto dell’Ucraina” alla sua autodeterminazione e “lavoriamo in ogni sede a questo obiettivo”. Dall’altra parte Meloni è gelida sul rapporto da avere con la Cina, argomento che sarà in discussione al Consiglio europeo. “Andrebbe aperto un dibatto su come l’Unione ha gestito l’ingresso della Cina nel commercio globale. Quella cinese e quella europea sono economie interdipendenti. Il rapporto economico dovrebbe evolvere verso standard comuni”. Il ragionamento della capa del governo è che serve “sostenere con forza la competitività del nostro sistema produttivo per non cadere in nuovi deleteri legami di dipendenza“.
Il passaggio diventa più stretto quando si arriva al capitolo dei migranti. Un lungo applauso accompagna il passaggio in cui Meloni ricorda di non aver accettato di essere “pagata per trasformare l’Italia nel più grande campo profughi d’Europa“. Ma resta da capire, ancora, come le istanze italiane vengano recepite dagli altri Paesi membri, dopo i fallimenti degli ultimi vertici. “Il vero nodo rimane uno: distinguere i migranti economici da chi ha diritto alla protezione internazionale, sono due materie diverse per anni contrapposte. Un ragionamento figlio di calcoli ideologici che ha indebolito chi ne aveva diritto. La difesa dei confini esterni è l’aspetto fondamentale, chi ha dato fiducia a me e al governo si aspetta risultati concreti e non importa se serve tempo, i risultati saranno strutturali e duraturi“. E poi le le regole di Dublino, “considerate superate ma per nazioni come la nostra diventano addirittura pericolose e ci espongono a flussi irregolari” dei migranti. Fin qui la strategia, resta da capire il come.