Bottiglie di vino, giorni di viaggio, sale, perfino la più banale “neve”. Sono parole in codice quelle usate tra lo chef di Villa Zito, Mario Di Ferro, e i suoi clienti: non venivano da lui soltanto per cenare ma anche per acquistare droga. Tra gli acquirenti spicca per “assiduità” e per notorietà, l’ex presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, storico viceré di Silvio Berlusconi in Sicilia fino a pochi mesi fa. Proprio con l’ex ministro – che non è indagato – Di Ferro, da oggi ai domiciliari, usa la metafora della neve: “Ma ti stai imbarcando per Palermo?”, chiede. “Si, Sì, mangio da te? Mangio da te?” chiede Micciché con insistenza. “No, sono chiuso. Sono a Piano Battaglia sulla neve, torno domani”, chiarisce Di Ferro, che dopo aver preso accordi per l’indomani aggiunge: “Ora ti mando una bella foto di dove sono per ora, c’è pieno zeppo di neve”. E Micciché insiste: “Ma dov’è pieno zeppo di neve? Anche a casa mia? Hai notizia anche a casa mia? No?”. E ridono. Evidentemente alludendo alla possibilità di ricevere alcune dosi di “neve”, ossia di cocaina, dopo averle insistentemente
richieste a Di Ferro”, scrive la gip Antonella Consiglio.

L’origine dell’indagine – Una conversazione del 3 marzo che “spicca”, tra le numerose telefonate intercettate tra Di Ferro e Micciché, come annota la giudice disponendo il nuovo arresto dello chef, dopo il precedente dell’aprile scorso. Sono 411 chiamate in tutto, intercettate dal novembre del 2022 allo scorso 4 aprile, quando Di Ferro è stato colto in flagranza mentre cedeva tre grammi di coca in cambio di 300 euro a Giancarlo Migliorisi, fino a quel momento capo della segreteria tecnica del presidente dell’Ars Gaetano Galvagno, esponente di Fratelli d’Italia. Migliorisi era notoriamente un collaboratore di Miccichè, predecessore di Galvagno, ex senatore e in passato anche viceministro dell’Economia e ministro della Coesione territoriale nei governi Berlusconi. Di Forza Italia Miccichè è stato il leader in Sicilia, almeno fino ai dissidi con l’attuale presidente della Regione, Renato Schifani. Che proprio nei giorni successivi al primo arresto di Di Ferro, nell’aprile scorso, decise di andare a cena a Villa Zito, sollevando inevitabili polemiche. Adesso, quasi tre mesi dopo, la gip di Palermo ha disposto il nuovo arresto dello chef, ai domiciliari, e dei due fratelli Salomone, Gioacchino e Salvatore, ritenuti i fornitori di droga.

A comprare droga con l’autoblu – L’indagine della polizia di Palermo, coordinata dal procuratore capo Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido, ha svelato come nel cuore di Palermo avvenisse la cessione di droga. Un’indagine scattata perché un esponente di spicco di Cosa nostra aveva contattato lo chef per un incontro riservato. Per questo gli investigatori hanno monitorato il Villa Zito, il ristorante preferito della “Palermo bene”. In questo modo le indagini hanno svelato come la villa settecentesca, nel centro del capoluogo siciliano, è stata il cuore dello scambio di droga. Secondo le carte una trentina di cessioni di stupefacenti erano a favore di Micciché, che arrivava spesso a villa Zito con la sua autoblu e tanto di lampeggianti accesi. Soste brevi, come nel caso del 6 gennaio, quando l’Audi del politico si ferma, lui scende e dopo venti minuti risale in macchina. Visite quasi sempre anticipate da una telefonata di Di Ferro a Salomone. Perfino poche ore prima dell’arresto di Di Ferro, lo scorso aprile, Micciché aveva sentito al telefono il pusher. Dal momento dell’arresto quelle conversazioni si interrompono. E dire che il rapporto tra i due era assiduo, spesso molto informale, tanto che in una chiamata del 20 gennaio, Micciché chiede allo chef dove si trovi. Lui risponde così: “”Al locale, cretino! Sempre cretino sei … sei cretino … “. Da parte sua Miccichè si è difeso con queste parole: “Prima di potere dire qualcosa devo capire cosa c’è nell’inchiesta in cui non sono indagato, ma posso dire che sono dispiaciuto per Mario Di Ferro: è un caro amico che conosco e frequento da moltissimi anni. Andavo alla sue feste che erano sempre molto divertenti, frequentate da tantissima gente e dove non ho mai visto della droga”.

Il linguaggio in codice – Dalle carte delle inchiesta, però, emerge che Di Ferro e Miccichè avrebbero usato un linguaggio in codice: per indicare le dosi avrebbero fatto riferimento, ad esempio, al numero dei giorni in cui il politico si sarebbe dovuto recare fuori sede. Conversazioni che hanno subito insospettito gli inquirenti anche per il tenore delle frasi pronunciate. “Ma quanti giorni sono?” chiedeva Di Ferro durante un discorso totalmente diverso. E Miccichè rispondeva: “Va beh uno, che c… ne so io, tu esagera”. In altre conversazioni che avevano a oggetto presunti viaggi, invece, sarebbe stato lo stesso politico a mostrarsi all’oscuro della sua partenza. “Quanti giorni ti fermi fuori?”, chiedeva Di Ferro, provocando l’immediata risposta di Miccichè: “Dove?”. Dopo le telefonate con il politico il ristoratore avrebbe chiamato i suoi due fornitori di cocaina, indicati con il nome in codice “il rappresentante“. “Telefonate – si legge nell’ordinanza – a cui ha sempre fatto seguito l’immediato approvvigionamento di stupefacente destinato a Miccichè. In altri casi, invece, il politico faceva riferimento al cibo. “Che mi puoi portare da mangiare”? chiedeva. E Di Ferro: “Ci penso io”. D’altronde, come scrive la giudice, Micciché è un “contatto telefonico assiduo” di Di Ferro “e frequentatore abituale del ristorante Villa Zito e della sua abitazione”. Tra i due si ascoltano telefonate a “tratti surreali”, come le definisce la gip, e “alle quali ha sempre fatto seguito l’immediato approvvigionamento di stupefacente destinato a Micciché”. Il 19 novembre, il 26, il 30, poi ancora il 3 dicembre, il 27 e il 30, e ancora a gennaio. Sono tanti gli episodi riportati nell’ordinanza in cui Micciché non risulta indagato. Il 26 novembre, per esempio, il berlusconiano sente Di Ferro al telefono e gli annuncia che sta arrivando. “Tra una mezzoretta vengo lì”, dice. Alle 20.20 Di Ferro, in compagnia di Miccichè, chiama Salvatore Salamone e gli chiede di raggiungerlo: “Avvicina”, gli dice. Alle 20.43 Salamone, in bici, entra a Villa Zito dall’ingresso principale per andarsene poco dopo. E ancora il 30 novembre il sistema di videosorveglianza davanti all’ingresso secondario del locale riprende oltre all’arrivo del politico, anche il successivo incontro tra Di Ferro e Salamone che, dopo averlo atteso, alle 14.32 gli consegna una bustina, la sostanza stupefacente secondo i pm, attraverso il cancello. Così Villa Zito era diventata “un centralissimo ed esclusivo punto di spaccio di droga”. Circostanza che preoccupava perfino i dipendenti: “Io qualche volta mi arrabbio per come si comporta pure Mario, io una volta ho chiamato a … inc … Polizia qua cocaina, perché se qualcuno viene e ti fai … inc … ( … ) perché mi fa ~ male, a me mi fa male!”, dicevano la notte del 17 febbraio due dipendenti stranieri, preoccupati della loro condizione di lavoratori extracomunitari.

Il figlio del pusher: “Sei un coglione” – Anche il figlio dello chef, Berardo Di Ferro, dopo il primo arresto del padre è preoccupato e lo redarguisce: “lo ti sto dicendo che ‘ste cose lo sai quanto mi fanno schifo e solo tu sei così coglione da poter fare un favore a della gente ancora più merda di non so che cosa perché ovviamente i politici sono la merda per eccellenza ( … ) e sei un coglione! ( … ) perché servi tramite cazzate, perché è una grandissima cazzata questa cioè …. Neanche un mongoloide, cioè capito che tu … ti definisci intelligente furbo e poi fai delle … ( … ) cose così stupide come questa e non solo, per giunta la persona a cui fai il favore è per giunta una persona di merda perché ti incula pure e afferma pure … mettendoti nella … nelle …. Ancora di più nella merda di quanto ( … ) tu da solo non abbia fatto”. Ma Di Ferro è tranquillo: “Sono nato per servire ( … ) mi hanno liberato? Poi ci sarà il processo e non farò neanche un giorno di galera, non farò un cazzo ma vaffanculo!”.

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