Cultura

Biennale teatro Emerald, ‘che cosa cambieresti della tua vita, se potessi riviverla?’: così la performance di Mattias Andersson ha incantato il pubblico

E’ stata una vera e propria sfida quella di presentare al pubblico italiano per la prima volta ‘Vi som fick leva om våra liv’ (Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo), del regista e autore svedese Mattias Andersson. Considerando anche quanto, aldilà del tema e della durata, sia un lavoro complesso, persino filosofico

Ci si può appassionare per 150 minuti, con un intervallo di 25, sulle risposte che 137 svedesi intervistati hanno dato alla domanda: ‘Che cosa cambieresti della tua vita, se potessi riviverla?’. E’ stata una vera e propria sfida quella di presentare al pubblico italiano per la prima volta ‘Vi som fick leva om våra liv’ (Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo), del regista e autore svedese Mattias Andersson. Considerando anche quanto, aldilà del tema e della durata, sia un lavoro complesso, persino filosofico: la seconda parte si apre con la citazione dell’eterno ritorno di Nietzsche… Eppure l’efficacia di questa costruzione teatrale, sotto-recitata da un gruppo di attori che riescono a rendere il tutto davvero realistico e insieme incantevole, ha trasformato questo appuntamento nel secondo ‘colpaccio’ della Biennale Emerald, dopo la performance ‘La Terra di Nod’ degli FC Bergman. Peccato che spesso i teatri pubblici italiani siano ormai impermeabili alle novità, così presi a sostenersi vicendevolmente in una certa mediocrità, e perciò cadono nel vuoto anche i migliori suggerimenti che la Biennale propone, anche quando sono a portata. E’ stato il caso l’anno scorso della regista d’origine lituana Yana Ross, per dire di una che allestisce spettacoli a Zurigo e a Berlino; e purtroppo ci si aspetta identica sorte per questo maestro svedese, dopo le due rappresentazioni veneziane e un solo precedente in Emilia Romagna. Eppure di Andersson potremmo ancora facilmente sentire parlare: il suo prossimo spettacolo, che andrà in scena il 2 settembre a Stoccolma, mette a tema il presente storico dell’Europa attraverso il confronto fra un gruppo di giovani attori e alcuni rappresentanti delle generazioni precedenti.

E GLI ITALIANI? NUDI ALLA META
Del resto, è naturale che in un Paese dove la retorica della parola recitata e del ‘capocomico’ tiene ancora banco, un teatro più vivo, più vero e meno pomposo viene guardato con sospetto. Perciò è meglio non passare nemmeno al confronto, per esempio tra i giovani belgi o svedesi e i nostri pur migliori ‘emergenti’, come la compagnia al femminile che si è spesa fino all’estrema nudità sotto la guida di una nuova primadonna come Federica Rosellini, nella proposta originale di ‘Veronica’ di Giacomo Garaffoni, che pure è lodevolmente un po’ fuori dagli schemi. Bisogna guardare prima di tutto al verde, di cui è una declinazione lo smeraldo – o Emerald, come recita la dizione ufficiale della Biennale Teatro di quest’anno – per inquadrare la manifestazione in corso a Venezia. Prima ancora della preziosità in sé, è la caratteristica d’innovazione dei linguaggi che la proposta dei curatori Stefano Ricci e Gianni Forte, almeno nei primi giorni, ha mostrato con decisione. L’origine del nome del verde, com’è noto, risale all’aggettivo latino riferito alla rigogliosità delle piante e al vigore del fogliame. Gli etimologisti ne hanno rintracciato la radice in comune con la parola originale che indica addirittura l’uomo guerriero: del resto, per la gioia degli anti-specisti, che sia vegetale o animale sempre di forza si parla. Nel caso della Biennale 2023 sembra che Ricci e Forte abbiano scelto di far scendere decisamente in campo il teatro guerriero, nel pieno della forza, che riesce, o almeno prova, a esprimersi al presente.

PROVOCAZIONI E TRAGEDIE MUTE
E così si gioca tra l’avvincente musica techno originale di Chloé Thévenin e l’esibizione di un’acrobata straordinaria come Chloé Moglia, la forza di ‘Anima’, una perfomance sul mondo che sembra destinato a scomparire nell’Antropocene, firmata dalle francesi Noémie Goudal e Maëlle Poésy. E si legge tutta nei sovra-titoli scritti da Pablo Gisbert e Tanya Beyeler, proiettati a margine della scena, ‘La Plaza’ del collettivo catalano El Conde de Torrefiel: un provocatorio saggio di post-teatro in cui per metà tempo si vede solo un grande tappeto di fiori e nella seconda metà gli attori sono come pupazzi muti col volto coperto, e infine gli spettatori sono invitati seccamente a non dare alcun cenno di reazione, men che meno ad applaudire. Per non dire dell’apocalittico e tragico balletto sulle madri disperate dei giovani palestinesi vittime della guerra in ‘Milk’ di Bashar Murkus, dove gli unici suoni umani erano sospiri o schioccare di baci. Questo nuovo teatro guerriero non rinuncia a combattere la sua battaglia politica, antropologico o ecologista, ma di fatto scarta a priori l’armamentario tradizionale della parola teatrale aulica, o comunque pratica un ben diverso uso del testo. Ma, attenzione, si apre una nuova settimana di Biennale dove il rapporto tra performance e testo si potrebbe ribaltare.