Non solo la condanna in primo grado per la strage di Bologna. Paolo Bellini è indagato anche per la bomba a Capaci, per quelle in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a Milano e in via Fauro a Roma. La novità emerge dalle carte che oggi hanno portato all’arresto dell’ex Primula nera. Alla procura generale di Bologna, infatti, sono arrivate le intercettazioni compiute dalla Dia e dal Ros dei carabinieri su ordine delle procure di Caltanissetta e Firenze. Le cimici piazzate in casa di Bellini hanno registrato le sue minacce nei confronti dell’ex moglie, che riconoscendolo in un filmato dell’epoca lo ha fatto condannare all’ergastolo per la strage alla stazione, ma pure di Francesco Maria Caruso, il presidente della corte d’Assise di Bologna che ha emesso la sentenza. Quelle intercettazioni sono state girate alla procura generale di Bologna, che ha chiesto e ottenuto l’arresto dell’ex esponente di Avanguardia nazionale. Bellini è detenuto a Spoleto, ma prima dell’arresto ha fatto in tempo a presentarsi davanti ai magistrati di Caltanissetta e Firenze: l’interrogatorio era fissato per due giorni fa, il 27 giugno. L’indagato, che è stato anche perquisito, ha negato ogni addebito.

A più di trent’anni dai fatti gli uffici inquirenti competenti per le stragi del 1992 e 1993 stanno continuando a indagare su uno dei periodi più misteriosi della storia italiana. E hanno iscritto sul registro degli indagati anche Paolo Bellini, ex estremista di destra, pilota di aerei e trafficante di opere d’arte con la falsa identità di Roberto da Silva, killer della ‘ndrangheta ma pure sedicente infiltrato in Cosa nostra per conto dei carabinieri. Un uomo dalle mille vite, che è entrato e uscito dai misteri italiani degli ultimi quarant’anni. In passato Bellini era già stato indagato per le stragi di Firenze, Roma e Milano ma è stato archiviato nel 2005. È la prima volta, invece, che viene messo sotto inchiesta per la strage di Capaci. La procura di Caltanissetta, infatti, vuole chiarire i retroscena legati alla presenza dell’ex primula nera in Sicilia nei mesi precedenti all’eliminazione di Giovanni Falcone.

Nel dicembre del 1991 Bellini si trova sull’isola: quello è un momento cruciale, perché viene pianificato il piano d’attacco allo Stato di Cosa nostra. Bellini sostiene di essere venuto in Sicilia perché doveva recuperare alcuni crediti. All’epoca viveva di questo: otteneva il pagamento dei debiti per conto terzi. Per questo motivo contatta Nino Gioè, un mafioso che poi farà parte del commando della strage di Capaci e che lui aveva conosciuto nel carcere di Sciacca dieci anni prima, nel 1981. Dice Bellini di aver chiesto aiuto a Gioè per riscuotere quei crediti a Catania e Palermo: i due concordano di vedersi il giorno dopo ad Altofonte. Non è chiaro cosa si dissero e neanche chi andò poi a raccogliere quei soldi. Di sicuro c’è solo che Bellini decise di passare la notte a Enna. Una vicenda singolare: in pratica l’ex Primula nera arriva con la nave a Messina, si dirige verso Palermo ma si ferma a Enna, cioè esce dall’autostrada e si arrampica sul capoluogo più alto d’Italia dove quel giorno, il 6 dicembre del 1991, sta nevicando. È l’unica città dove sta nevicando in Sicilia, Bellini può fermarsi a Caltanissetta, a Cefalù, ovunque: invece sceglie una sosta più impervia, più lunga, lontana dalla sua meta e dove c’è la neve. Arriva in albergo, cerca sull’elenco telefonico – così dice – il numero di Gioè e chiede di incontrarlo per la questione dei crediti da riscuotere. Soldi che nessuno andrà mai a incassare. Neanche un tentativo; ci avrebbe pensato Gioè – dice Bellini – ma Gioè non ci penserà mai. Casualmente, però, Enna è nella stessa zona dove proprio in quei giorni del dicembre 1991 Riina ha radunato il gotha di Cosa nostra per progettare le stragi dei mesi successivi. Proprio durante quelle riunione il capo dei capi ordina ai suoi di rivendicare bombe e omicidi con una oscura sigla, fino a quel momento comparsa solamente in nord Italia. La sigla è quella della Falange Armata. Chi è Bellini? Cosa fa a Enna quando Cosa nostra progetta le stragi? È per rispondere a queste domande che è finito indagato a Caltanissetta.

Le strade di Bellini e Gioè s’incrociano anche pochi mesi dopo, alla fine del 1992. Sostiene l’ex Primula nera che, dopo la strage di via d’Amelio, va dal maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e propone d’infiltrarsi in Cosa nostra. E’ la cosiddetta trattativa per recuperare le opere d’arte perdute: Bellini contatta il suo vecchio amico Gioè e gli propone di recuperare preziosi e quadri rubati. In cambio lo Stato avrebbe dovuto garantire benefici carcerari ad alcuni boss mafiosi detenuti. I carabinieri negano, ma in ogni caso di quella storia non se ne farà nulla. Eppure quella vicenda lascia in sospeso inquietanti interrogativi. Per esempio: è vero che Bellini suggerì ai mafiosi di colpire il patrimonio artistico dello Stato? Lo sostiene Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, poi diventato pentito. Si era nascosto dietro a una porta per origliare il colloquio tra Bellini e Gioè. E il primo, a un certo punto, avrebbe detto: “Cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?”. Bellini, però, nega: non fu lui a pronunciare quella frase, ma Gioè. Il quale, però, non può più replicare: è morto impiccato nel carcere di Rebibbia. Un suicidio stranissimo, anche perché Gioè lascia una lettera in cui sembra essere sul punto di collaborare con la giustizia: è la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, poche ore dopo la strage di Milano. In via Palestro è saltato in aria il Padiglione d’arte contemporanea, un importante pezzo del patrimonio artistico culturale italiano, che però era poco noto al grande pubblico: una cosa è il Duomo, un’altra il Pac. Esattamente come era avvenuto il 27 maggio per la Torre dei Pulci in via dei Georgofili: non sono gli Uffizi e non è neanche la Torre di Pisa. Poco prima della morte di Gioè le bombe colpiscono pure le chiese romane di San Giorgio in Velabro e San Giovanni in Laterano, che hanno la particolarità di portare i nomi di battesimo di quelli che allora erano i presidenti della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Giovanni Spadolini): una strategia elaborata che non sembra essere farina del sacco di mafiosi come Luchino Bagarella, Giovanni Brusca detto lo scannacristiani, Giuseppe Graviano detto Madre natura. Da chi arriva un’idea così raffinata? Cosa nostra ha avuto per caso un suggeritore? È quello che vogliono capire gli inquirenti, che ancora oggi indagano su quei fatti.

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