L’imprenditoria italiana – soprattutto quella del turismo e della ristorazione – soffre da qualche tempo di una grave malattia, la “piagnonite”. Si manifesta quando arriva un giornalista con un microfono o una telecamera: a quel punto l’imprenditore, d’improvviso, si dispera, si lamenta, quasi piange. La causa di questo psicodramma è l’impossibilità di trovare dipendenti.
L’ultimo in ordine di tempo a essere colpito da questa malattia – che ha un tasso di contagio che la avvicina alla gastroenterite – è il sig. Arrigo Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar a Venezia e di altri quindici (15) ristoranti in giro per il mondo. In un’intervista al Corriere del Veneto Cipriani non le manda a dire: “Inutile cercare scuse: il problema principale è il reddito di cittadinanza, che ha rovinato il mondo del lavoro lanciando il messaggio che si possono guadagnare soldi anche standosene comodamente a casa seduti sul divano”.
Dove l’avrò già sentita questa? Forse in tutti i talk show, in tutte le tv e su tutti i giornali (di destra o “progressisti” che fossero)?
Il reddito di cittadinanza come “disincentivo” al lavoro. Peccato che un percettore di reddito un lavoro in realtà ce l’abbia e che, se deve ricorrere a uno strumento anti-povertà come il RdC, è perché pur lavorando non riesce a uscire dalla condizione di povertà. Perché? Perché troppi salari, in questo Paese, sono da fame.
Continua Cipriani: “Ormai sono i soldi che comandano il mondo, non più il valore del lavoro”. Un aforisma buono per boomer che amano rappresentarsi il mondo in cui sono cresciuti come migliore di quello attuale. Come se in passato il rapporto imprenditore-dipendente fosse un idillio fatto di sorrisi, pacche sulle spalle, “valore sul lavoro” echissenefrega di quanto mi paghi.
Peccato esista una cosa chiamata “Storia” a smentire la favoletta di Cipriani: i conflitti operai degli anni ‘60 e ‘70, per non tornare troppo indietro nel tempo, le battaglie per gli aumenti salariali, più sicurezza, riconoscimento dei sindacati, per strappare tempo di vita a quello di lavoro…
E poi bello che queste storielle del “valore del lavoro” che dovrebbe (tornare a) primeggiare sui soldi le vengano a spacciare sempre personaggi con i portafogli pieni e conti milionari. Che brava gente loro che, pur non facendosi comandare dai soldi, ne hanno accumulati così tanti da poter aprire 15 ristoranti in giro per il mondo!
Quando poi il giornalista chiede se per caso la difficoltà di reperire personale possa avere a che fare con stipendi troppo bassi, la “piagnonite” di Cipriani tocca vette irraggiungibili: “Gli stipendi di tutti sarebbero più alti se alle tasche dell’imprenditore venissero a costare di meno”.
Siamo sicuri che sia questo il problema di fondo? In realtà, soprattutto nel turismo e nella ristorazione, settori in cui è attivo Cipriani, abbiamo una sorta di controprova che ci dice altro. Molti imprenditori sostengono che pagherebbero volentieri duemila euro al mese, ma le troppe tasse glielo impedirebbero. Peccato che gli stessi soggetti, quando assumono in nero (quindi senza pagare un solo euro di tasse, perché forma di sfruttamento completamente irregolare), offrano paghe da 4-5 euro l’ora. Tuttavia non c’è la scusa delle tasse. E allora? E allora le paghe basse sono in gran parte dovute alla volontà degli imprenditori di abbattere il costo del lavoro per riempire le loro tasche. La miseria dei lavoratori produce la ricchezza degli imprenditori.
Ma Cipriani ci tiene a dire che lui i suoi dipendenti li paga bene. “Quanto il contratto nazionale vuole che io li paghi, non sono io a dettare legge sulle cifre”. I contratti, in realtà, impongono un minimo. Per cui potrebbe tranquillamente alzare gli stipendi, se solo volesse. Non gli manca la possibilità, ma la volontà. E magari scoprirebbe che a quel punto il personale non scarseggerebbe!
Al buon Cipriani, però, non la si fa. Il problema non sono i salari da fame, la precarietà dilagante, i ritmi di lavoro infernali; insomma, lo sfruttamento. Il problema del nostro Paese è che “l’Italia ormai è una Repubblica che si fonda sulle ferie. In Italia i lavoratori godono di 5 settimane di ferie all’anno, un lasso di tempo che non esiste in nessun altro Stato”. Cipriani ha anche la soluzione in mano: ridurre le ferie a 3 settimane l’anno, come nei civili Stati Uniti, mica “Terzo Mondo in cui si può parlare di sfruttamento”.
Maledetti lavoratori e lavoratrici che volete il diritto al riposo, magari a farvi pure una vacanza. È tutta colpa vostra!
Anzi no. Non solo vostra. Perché, chiude Cipriani, “se siamo arrivati ad avere 5 settimane di ferie è soprattutto colpa dei sindacati, che non guardano in faccia la realtà, che dicono di difendere i diritti dei lavoratori ma non pensano a quelli degli imprenditori. Non siamo lavoratori anche noi? A noi chi ci difende?”.
E, a questo punto, immagino le lacrime copiose rigare il viso del povero Cipriani. Chi lo difende?
Fuor di ironia: l’intervista del Corriere del Veneto è uno schiaffo in faccia ai milioni di persone che ogni giorno lavorano in ogni condizione e a ritmi impossibili per arricchire i Cipriani d’Italia, spalleggiati da un potere politico che legifera nel loro interesse e da un potere mediatico che permette che le offese alla dignità della nostra gente possano essere messe nero su bianco senza nemmeno un briciolo di domanda.
Salario minimo di 10€, riduzione della settimana lavorativa a 4 giorni e 32 ore a parità di salario, più controlli da parte di un Ispettorato del Lavoro rafforzato nelle prerogative e nei numeri (diecimila assunzioni): perché siamo stanchi delle vostre lacrime a favore di telecamera e soprattutto siamo stanchi delle nostre, nel chiuso delle nostre case, frutto della disperazione in cui ci buttate ogni giorno.