Società

Daniela Santanchè e Flavio Briatore condannati senza appello dal tribunale del buon gusto

Daniela Garnero già in Santanchè (Cuneo, 1961), discesa giovanissima a valle dalla Provincia Granda in cerca di fortuna, insieme all’altro avanzo di balera Flavio Briatore (Verzuolo-Cuneo, 1950), è l’icona perfetta del tipo umano sdoganato e poi valorizzato dalla berlusconizzazione della società italiana: ragazzotti bellocci, senz’arte né parte quanto posseduti da animal spirits che li trasformano in feroci predatori senza scrupoli di guadagni facili e abbondanti.

Perché stupirsi se la Garnero, superato il capo della sessantina, e il Briatore, oltrepassata abbondantemente quota settanta, continuino a dare sfogo alla loro voracità acquisitiva/possessiva pretendendosi imprenditori? L’una spillando soldi a quelli del proprio giro sotto forma di pubblicità, tramite centri di raccolta (le sue ditte) destinati ad andare a ramengo per l’inaffidabile insipienza della sciura padrunna; l’altro atteggiandosi a manager in business altamente improbabili tipo quello di ultra esoso taverniere in Costa Smeralda per una clientela di riccastri o di pizzaiolo da nababbi. Affari senza capo né coda che si reggono su due tratti ricorrenti: l’infedeltà contributiva (leggi tasse allo Stato, stipendi e contributi ai dipendenti) come via maestra al profitto; la patina di lusso esclusivo con cui li rivestono di una presunta eccezionalità. Gratificazione per le manie di grandezza dei due impuniti sgomitatori e – al tempo stesso – acchiappa-citrulli per quelli che si fanno turlupinare dall’attestazione di classe certificata da cartellini dei prezzi con quotazioni esagerate.

E qui ci si ferma sull’effettiva solidità di tali scorribande nel mondo degli affari, attendendo al riguardo il responso della magistratura. Quanto prima per la Garnero, alle prese con vicende fallimentari incombenti. Chissà quando il suo conterraneo e partner nel campo iper-tutelato dalla concorrenza della balneazione, visto che le origini delle fortune briatorie restano avvolte nel mistero. Si sa solo che il geometra al rum è stato per un certo periodo latitante nelle Isole Vergini a seguito di inchieste giudiziarie legate a presunte truffe nel gioco d’azzardo: condannato in primo grado, solo dopo l’amnistia del 1990 è potuto rientrare in Italia.

Dunque staremo a vedere. Mentre la sede in cui già da ora viene loro comminata una condanna senza appello all’ergastolo è il tribunale del buon gusto e della distinzione; ambiti di cui si pretenderebbero esperti indiscussi. Quali cultori del cafonal più spudorato: vedi quando il Briatore – nella versione italiana della trasmissione di Donald Trump Apprentice, reality show sulle regole del successo negli affari – espelleva un allievo per abbigliamento inadeguato e intanto ostentava sotto la giacca un mariolo girocollo casual da disc jockey. Del resto il loro supremo profeta Silvio Berlusconi si pretendeva arbiter elegantiarum addobbato da cumenda brianzolo, con quelle giacche doppiopetto dai revers ascellari che Paolo Villaggio definiva “sogno da ragioniere”.

Mascherate in cui la Garnero eccelle, nella convinzione che l’eleganza sia sinonimo di ostentazione, esibizione di marchi apprezzati in quanto costosi. Ovvero la pacchianeria elevata a supremo certificatore di status. Il mondo fasullo del film Il diavolo veste Prada, in cui l’omologazione al top per donne in carriera si ridurrebbe all’indossare straccetti firmati mentre, per il maschietto loro partner, esibire capi e accessori palesemente costosi in quanto certificati dal marketing del look.

Insomma, l’apoteosi del parvenu, all’epoca dell’involgarimento; in cui i criteri dell’apprezzabilità sociale sono determinati da torme di arrampicatori sociali. Al loro sedicente “buon gusto” mercificato un tanto al chilo. A cui non è mai pervenuto il saggio insegnamento di Coco Chanel, secondo cui “la moda è quello che passa di moda”. Quando l’eleganza andava a braccetto con la buona educazione.

Un fastidio – davanti alla Garnero e i suoi epigoni – che diventa lancinante ricordando antichi esempi dello stile, ormai perduti. Lo chic informale-sportivo di Beppe Croce, presidente dello Yacht Club Italiano dal 1958 al 1986 (riferimento primario dell’avvocato Agnelli, seppure seguito con qualche caduta nel voyant), la signorilità del conte Eugenio Radice Fossati, nella Camera di Commercio milanese anni Sessanta. E aggiungo alla breve lista persino un giornalista, del tempo in cui questa categoria ancora praticava le forme e i modi: ricordo – giovanissimo borsista al Ceses di Renato Mieli – l’emozione di incontrare Enzo Bettiza e il suo riservato charme mitteleuropeo. Quando – come scrive lo storico marxista Eric Hobsbawm – non erano ancora accolti come modelli “i vestiti e perfino il linguaggio delle classi inferiori dei centri urbani”. Poi ci fu la calata delle Garnero e la volgarità non trovò più ostacoli.

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