Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non intende far naufragare il suo progetto sulla riforma della giustizia più contestata di sempre, ma rilanciarlo, renderlo più digeribile. Annuncia così – in un’intervista al Wall Street Journal – di voler escludere uno dei provvedimenti più controversi, ovvero l’eliminazione della cosiddetta “clausola di ragionevolezza”, in nome della quale la Corte Suprema può bocciare leggi e provvedimenti approvati dal Parlamento israeliano, la Knesset.
Sul punto, la riforma presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin puntava a fare in modo che nel caso in cui la Corte Suprema decidesse di annullare una legge, sarebbe stato possibile per il Parlamento salvarla con un voto a maggioranza semplice, ignorando la sentenza della Corte. Ora Netanyahu arretra, rinunciando a questa modifica e spiegando al Wall Street di essere “attento al polso dell’opinione pubblica, a ciò che pensa la gente”.
C’è da dire che nel corso dei mesi, a partire dallo scorso marzo, le voci critiche nei confronti della riforma che si sono sommate a quelle dei comuni cittadini non sono state esattamente di poco conto: oltre allo scontento dei colossi economici, sono intervenuti dicendosi preoccupati il cancelliere tedesco Olaf Scholz e anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Dopo il momentaneo “congelamento” della riforma deciso a fine marzo, il 25 giugno sono riprese alla Knesset le consultazioni per varare in tempi serrati almeno una parte della riforma. Si sono quindi fatti sentire i riservisti dell’aviazione militare israeliana, che in centinaia hanno annunciato la volontà di smetteredi prestarsi volontari “fintanto che proseguiranno i provvedimenti unilaterali del governo finalizzati alla distruzione del sistema democratico e alla installazione di un regime dispotico, il tutto sotto la falsa definizione di riforma giudiziaria”, si legge nel loro comunicato.
Congiuntamente, alcuni gruppi di dimostranti si sono riuniti fuori dall’appartamento del ministro della Giustizia Levin, il quale ha scritto su Facebook di essere rimasto bloccato in casa per circa 3 ore, accusando la polizia di essere intervenuta con grande ritardo. Secondo quanto riportato dalla radio pubblica Kan, gli agenti avrebbero fatto ricorso a gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti, sette dei quali sono stati fermati. Altri incidenti si sono verificati nei pressi di un commissariato di polizia nel distretto centrale di Petach Tikwa (Tel Aviv). Una protesta contro il governo è stata infiltrata da alcuni sostenitori della riforma, uno dei quali ha urtato con l’auto una dimostrante in sedie a rotelle, mentre un altro ha estratto una pistola.
Sulla scia di questi eventi Netanyahu ha quindi annunciato il parziale dietrofront, ma la clausola di ragionevolezza non è certo l’unica misura problematica contenuta nella riforma: altro punto essenziale riguarda il meccanismo di nomina dei giudici che, se la riforma venisse approvata, passerebbe completamente sotto il controllo del governo.
L’intero impianto della riforma della giustizia mira proprio a limitare i poteri della Corte Suprema, l’organo istituzionale che soprattutto a partire dagli Anni 90 ha assunto il ruolo di principale contrappeso al potere dell’esecutivo, già più esteso (e potenzialmente estendibile) rispetto a quello di altre democrazie occidentali per una serie di fattori: in primis, il Parlamento israeliano è unicamerale, rendendo quindi impossibile quella dialettica tra le due camere che, seppur rallentando non di rado il processo legislativo, lo sottopone a un più profondo processo di controllo e discussione. Secondo, rispetto agli altri sistemi parlamentari come ad esempio quello italiano, il presidente israeliano non ha alcun potere di veto né la possibilità di rimandare una legge alle camere.
All’interno dell’esecutivo – il più a destra nella storia del Paese – la riforma è appoggiata sia dai partiti della destra nazionalista laica, come il Likud di Netanyahu, sia dai partiti ultraortodossi e non si può dire che entrambi non abbiano buone ragioni per voler arginare l’ombra lunga della Corte Suprema. Il primo ha a suo carico un processo per corruzione e ritiene che le accuse siano politicamente motivate, mentre i secondi negli anni hanno visto la Corte limitare a più riprese i privilegi e le esenzioni di cui godono.