di Zeno Della Valle, Massimo Minerva, Giovanni Pisauro, Silvia Vannutelli (fonte: lavoce.info)

Oggi l’Italia ha una grave carenza di medici in alcune discipline cruciali. Ma le soluzioni adottate in fretta e furia, sotto la pressione politico-mediatica, rischiano di non risolvere il problema attuale e di crearne uno opposto nel futuro.

La situazione negli ospedali

L’Italia soffre oggi di una grave carenza di medici in alcune specializzazioni cruciali. Per cercare di risolvere il problema, i posti disponibili per l’iscrizione alla facoltà di Medicina sono stati gradualmente aumentati dal 2019, mentre la ministra Anna Maria Bernini ne ha da poco proposto un ulteriore ampliamento. Questo approccio, sulla carta sensato per aumentare il numero di medici nel lungo periodo, potrebbe però rivelarsi problematico, perché non tiene conto dei reali fabbisogni nei prossimi anni.

Oggi in molti ospedali italiani il personale medico è in calo e siamo anche il paese con i dottori più anziani d’Europa (l’età mediana è di 57 anni), il che porterà a un ulteriore peggioramento della situazione nei prossimi cinque-dieci anni. Il problema si estende anche al di fuori dell’ospedale, soprattutto se si guarda alla medicina di territorio, dove ora mancano circa 3mila medici di medicina generale, e altri 3.400 ne perderemo entro il 2025 (Fondazione Gimbe).

Tuttavia, non abbiamo sempre avuto questo problema. Negli anni Settanta la situazione era l’opposto di quella attuale. Non esisteva alcun limite all’iscrizione alla facoltà di Medicina e si era rapidamente creato un eccesso di laureati, la cosiddetta “pletora medica”, che non trovavano sbocchi nel mercato del lavoro pubblico. Così, negli anni Ottanta, il numero di ingressi a Medicina è progressivamente diminuito, pur senza l’introduzione del numero chiuso. Era una risposta naturale, legata alle scarse prospettive occupazionali. È solo nel 1999 che viene istituito il numero chiuso.

Non era difficile prevedere quanti medici sarebbero andati in pensione, ma nei 15-20 anni successivi al 1999 non è stato programmato un numero di ingressi a Medicina sufficiente a compensare i pensionamenti. Quando si è cominciato ad accorgersi del problema era troppo tardi. Per formare un medico sono infatti necessari dai nove agli undici anni e quindi oggi paghiamo la mancata programmazione dello scorso decennio. Alla programmazione miope si sono uniti la scarsità di risorse e il blocco del turnover nel settore pubblico, che ha rallentato le assunzioni per oltre dieci anni, portando a un progressivo svuotamento delle corsie.

I rischi per il futuro

Utilizzando i dati Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) sull’età dei medici iscritti agli ordini in Italia e sul numero di ingressi a medicina e nelle specializzazioni, possiamo farci un’idea di cosa succederà nei prossimi anni. Il rapporto tra medici e popolazione peggiorerà ancora nei prossimi sei anni, con un’ulteriore diminuzione di circa 26.600 unità da qui al 2028. In base ai dati dei medici iscritti agli ordini provinciali, pensionamenti e carenza di medici colpiranno in misura più forte le regioni del Sud Italia (ad esclusione della Puglia e della Sicilia, in linea con la media nazionale) e la Liguria. In particolare, la regione che verosimilmente perderà più medici in rapporto alla popolazione sarà la Calabria, dove circa il 28 per cento di quelli attualmente attivi raggiungerà l’età pensionabile (68 anni). Dal 2029 ci sarà poi un’inversione di tendenza, con il numero degli ingressi che comincerà a superare quello dei pensionamenti, fino a più che compensare i medici persi negli ultimi anni.

Per affrontare la questione, la ministra dell’Università ha istituito una commissione di esperti guidata da Eugenio Gaudio (ex rettore della Sapienza di Roma) e composta da Massimiliano Fedriga (presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome), Salvatore Cuzzocrea (presidente della Conferenza dei rettori delle Università Italiane), Carlo Della Rocca (presidente della Conferenza permanente delle facoltà e scuole di Medicina e Chirurgia), Gianluca Cerracchio (direttore della Direzione generale degli Ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio del ministero dell’Università e della Ricerca), Rossana Ugenti (direttore della Direzione generale e dell’Ufficio delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale del ministero della Salute). Nella sua relazione, la commissione ha suggerito di aumentare ancora il numero dei posti disponibili a Medicina. Ma stando ai dati, se lo si facesse, molti dei nuovi medici sarebbero formati quando la carenza sarà già stata adeguatamente coperta delle iscrizioni all’università degli ultimi anni.

La conseguenza sarà una nuova “pletora medica” che determinerà, oltre al problema di un enorme numero di medici disoccupati, un significativo spreco di risorse, visto il costo necessario a formare – difficilmente quantificabile – e specializzare i medici – mediamente 115 mila euro per ogni nuovo medico (Associazione Liberi Specializzandi). Sarà difficile, dopo che si è consentito l’accesso alla laurea, non permettere ai nuovi laureati di specializzarsi.

La questioni delle specializzazioni

Resta poi il problema, ancora più serio, della diversa attrattività delle varie specializzazioni. Le carenze di medici, infatti, sono particolarmente accentuate in alcune specializzazioni che si sono rivelate di importanza fondamentale proprio durante il Covid-19, come anestesisti, medici di pronto soccorso, internisti. A testimonianza di ciò, molti ospedali italiani son costretti ad appaltare migliaia di turni ai cosiddetti “medici a gettone”, assunti principalmente tra neolaureati, pensionati e liberi professionisti. Solo in Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte nel 2022 gli ospedali hanno acquistato oltre 100mila turni.

Anche qui, per ovviare alle carenze, dal 2019, sono stati aumentati i posti per tutte le specializzazioni (da circa 8 mila nel 2019 a quasi 18 mila nel 2020). Tuttavia, poiché non tutte le specializzazioni hanno la stessa attrattiva, l’attuale aumento indiscriminato dei posti (superiore al numero di nuovi medici laureati) ha determinato un netto squilibrio tra le diverse opzioni. Nel 2022, ad esempio, circa il 70 per cento dei primi cento medici nella graduatoria di ammissione per la specializzazione (e quindi con priorità di scelta rispetto agli altri) è stato assegnato a solo cinque delle 51 specialità disponibili. Specialità come dermatologia, chirurgia plastica e neurologia, che offrono grandi prospettive di guadagno nel settore privato e ampia flessibilità oraria, riescono a coprire molto facilmente quasi tutti i posti banditi, mentre altre – e sono proprio quelle dove ci sarebbe più bisogno di personale – fanno molta fatica ad attrarre gli specializzandi. Sempre nel 2022, giusto per fare qualche esempio, solo il 9 per cento dei posti banditi in microbiologia e virologia è stato coperto e molto carenti sono anche radioterapia (coperto il 20 per cento) e medicina d’urgenza (35 per cento).

Considerando i tempi necessari alla formazione, non ci sono soluzioni per l’attuale carenza di medici. Esiste però la possibilità di tamponare parzialmente il danno. Un passo avanti si è fatto permettendo agli specializzandi di entrare nel sistema sanitario in anticipo rispetto all’acquisizione del titolo di specializzazione. È però una dinamica tendenzialmente bloccata dalle università, che non hanno interesse a perdere l’attività degli specializzandi nei policlinici. L’Italia è poi il paese europeo con la più bassa percentuale di medici provenienti da università straniere – appena lo 0,9 per cento nel 2021 (Eurostat). In un momento di così forte carenza di personale varrebbe la pena anche riflettere su possibili incentivi e forme di reclutamento dall’estero mirate alle specialità più sguarnite.

Per quanto riguarda il diverso appeal delle varie specialità, l’unico modo per attrarre specializzandi dove c’è più bisogno sarebbe quello di aumentare le retribuzioni in quelle più sguarnite, dove ci sono meno possibilità di integrare lo stipendio pubblico con l’attività privata (la maggiore attrattività di alcune sembra infatti determinata dalle più alte retribuzioni attese laddove è possibile fare più attività privata), oltre ovviamente a decidere il numero di posti banditi in ogni specialità facendo più attenzione ai relativi fabbisogni.

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