Perché il governo Meloni, il più a destra di sempre in Italia, si oppone così fieramente al salario minimo? L’idea è che sia affetta dal consueto manicheismo politico dei conservatori: le idee degli altri sono sempre e comunque sbagliate. A guardar bene non ci sono molte ragioni, sia di fatto che di principio, per opporsi a questa misura ampiamente diffusa nei paesi a capitalismo avanzato, usando un’espressione oramai in disuso. Le due principali, quelle sempre citate, sono state smentite ampiamente dall’esperienza anche italiana, e una terza invece dovrebbe convincere del necessario intervento legislativo.

Vediamo la prima. A destra si sostiene che l’introduzione del salario minimo aumenterebbe inevitabilmente la disoccupazione. A prima vista il ragionamento sembra ineccepibile. Poiché il lavoro è una merce come tutte le altre, se il suo prezzo aumenta, anche il suo consumo tenderà a diminuire; in questo caso ci sarà un aumento della disoccupazione. Ma questa argomentazione è stata ampiamente smentita dai fatti.

Se rimaniamo in Europa e ci chiediamo qual è il paese che ha la disoccupazione più bassa, la risposta è la Germania che ha registrato nel 2021 una disoccupazione di appena il 3,6% (quella italiana è stata del 9,5%). Eppure in Germania il salario minimo è stato introdotto ancora nel 2015 (8,5 euro) e poi è stato portato a 12 euro dal primo ottobre 2022. Probabilmente sarà portato a 15 euro nel 2024. In Germania non vi è nessuna correlazione tra salario minimo e disoccupazione, che era comunque più alta e pari al 4,4% nell’anno in cui è stato introdotto per legge.

Se per ampliare l’orizzonte guardiamo agli Usa, la conclusione non cambia. La disoccupazione americana è al minimo storico (2,8 % nel 2021) pur in presenza di un salario minimo per legge che varia da stato a stato. Persino Walmart, il gigante americano della distribuzione sempre allergico ai sindacati, ha portato il suo salario minimo da 12 a 14 dollari a febbraio 2023. Quindi che il salario minimo aumenti la disoccupazione è una tesi tutta da dimostrare, per chi è in buona fede naturalmente.

Egualmente fasulla è anche la posizione iperliberista che si sente spesso a destra secondo la quale lo Stato non dovrebbe intervenire per alterare i meccanismi del mercato del lavoro. Se questo fosse vero, allora non si capirebbe come mai il governo Meloni abbia portato avanti e approvato in Parlamento a maggio 2023 la cosiddetta legge sull’equo compenso dei professionisti, cioè il loro salario o meglio compenso minimo. Curiosamente il compenso non viene definito equo in base alla produttività del professionista, come sarebbe del tutto ragionevole in termini economici, ma in base alla tutela della dignità della sua attività lavorativa.

Lo scopo della legge, si legge nei documenti preparatori, è quella di tutelare la posizione economica del professionista nei confronti di committenti particolarmente forti, come le banche, le assicurazioni o la pubblica amministrazione. Quindi la legge interviene per tutelare il soggetto debole nella trattativa contrattuale, in questo caso il professionista, in barba ad ogni presunta legge del mercato. In molti casi saranno i decreti ministeriali a stabilire l’ammontare del compenso valutandone l’equità ed è molto probabile che l’autorità politica sia molto generosa con i professionisti. Ma non è questo il punto. La questione è che il principio dell’equo compenso se lo si accetta deve essere applicato a 360 gradi, sia all’avvocato che tratta per la grande banca che al magazziniere o l’addetto alla sicurezza che lavora per 6 euro lorde all’ora. Anzi, la tutela economica di questi ultimi casi da parte della legge mi sembra più rilevante. L’ipocrita strabismo della destra che vede solo quello che vuole vedere è impressionante.

Cadute queste due obiezioni c’è tuttavia un ulteriore elemento che dovrebbe spingere il governo verso il salario minimo per legge. Se uno ha la pazienza di consultare il rapporto sulla povertà in Italia che ogni anno l’Istat prepara potrebbe considerare la tabella che riguarda il nesso tra povertà e condizione professionale. Per il 2021 si può vedere che più del 13% di coloro che svolgono un lavoro dipendente si trova in condizione di povertà. Detto in maniera diversa, più di un lavoratore dipendente su 10 è povero anche se ha un contratto di lavoro regolare. Tale condizione può dipendere da molti fattori, ma uno di essi è sicuramente il basso livello del salario.

Questo ci indica chiaramente che per ridurre la povertà una delle tante strade percorribili è quella di innalzare le soglie salariali, intervenire cioè per legge a favore dei lavoratori che da soli in riescono ad ottenere condizioni contrattuali decenti a causa dei contratti pirata. Tra l’altro, una normativa sul salario minimo avrebbe anche l’effetto non secondario di non pesare sulle casse dello Stato. La politica attuale di ridurre i contributi sociali per aumentare il salario dei redditi medio-bassi a spese dello stato è completamente deleteria. Questa riduzione, con recupero pensionistico, attuata dal governo Meloni è costata finora, e solo per il 2023, quasi 10 miliardi totalmente a debito e certamente non ripetibili per il 2024.

Il salario minimo, tra l’altro recentemente previsto anche da una direttiva europea, è uno di quei pochi argomenti che dovrebbero essere al di là della giornaliera polemica politica. Le ovvie schermaglie politiche dovrebbero riguardare casomai il suo ammontare, per esempio se 8, 9 o 10 euro, ed essere accompagnate da solide argomentazioni empiriche e di politica industriale. L’esperienza dimostra che il salario minimo non distrugge l’economia ma migliora le condizioni sociali di molte famiglie. Una leader della destra sociale come la sig.ra Meloni questo lo dovrebbe capire e ciò dovrebbe portarla a superare la gretta logica della contrapposizione ideologica secondo la quale gli altri hanno sempre torto, anche quando hanno, come in questo caso, ragione da vendere.

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