Quando penso a una storia d’amore ricordo sempre Nino Caponnetto e la moglie Elisabetta Baldi [in foto: alla destra del giudice] che in queste ore, a 101 anni, è morta. Ho auto l’immenso dono, da ragazzino, di stringere uno stretto rapporto (grazie all’amicizia con Rita Borsellino) con l’ex magistrato che guidò, dopo la morte di Rocco Chinnici, il pool antimafia cui facevano parte da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Diventai amico di Caponnetto quando, ormai in pensione, dedicò ogni giorno della sua vita ai più giovani. Incontrare “nonno Nino”, come lui voleva che lo chiamassi, significava conoscere anche “nonna Betta”. Loro erano “il due; non il doppio ma il contrario di uno e della sua solitudine sufficiente” di Erri De Luca. Diversi ma complici; amici e innamorati eternamente; capaci di sacrificarsi l’uno all’altro. Resta per me indelebile la cura amorevole di “nonna Betta” per suo marito.

Un’immagine forse basta per capire: quando veniva a Crema, dove spesso lo invitavo a parlare nella mia ex scuola superiore, le magistrali “Albergoni”, arrivava, anche se ormai in quiescenza, con tre auto di scorta. Dopo aver stretto le mani a più studenti possibili si sedeva al tavolo e nel frattempo la moglie cercava il bar più vicino per prendergli un succo di frutta e portarglielo. Un gesto semplice, forse persino banale ma che raccontava quanta passione quella donna avesse per il suo uomo. Nonna Betta non ha mai smesso di essere accanto a Nino. Lo ha fatto quando il magistrato scelse a sua insaputa di trasferirsi a Palermo, dopo l’uccisione di Chinnici.

In un’intervista ad Articolo 21 racconta: “Ricordo il giorno in cui si consumò l’attentato a Rocco Chinnici: “Il nonno non mi disse nulla. Ma io qualcosa gli dissi, accusandolo di quell’omissione. E mio marito mi fulminò con la sua risposta: ‘E non mi ringrazi?’. Mentre il nonno era a Palermo, vivendo protetto in una caserma della Guardia di Finanza, restai sola a Firenze per quattro anni e quattro mesi, a ricevere quotidianamente minacce. Dopo la firma della sentenza del maxiprocesso, trovai una corona da morto addossata al cancello della mia casa. Ma la scostai e uscii. Senza paura. Nino venne a trovarmi solo tre volte, per pochi giorni. Però, avevamo quella nostra telefonata quotidiana a mezzogiorno, e quella telefonata mi faceva dire ‘non sono sola’”.

Una volta, in pensione, a Rovezzano la loro casa, sorvegliata giorno e notte, si aprì a molti ragazzi che come me desideravano dare il loro contributo alla lotta alla mafia. Era nonna Betta ad accoglierci. E’ lì che un giorno, in quel salotto con il divano di pelle bianca, mi mostrò una cassa dove teneva le lettere che Nino gli scrisse da giovane: non me ne ha mai letta una, era un segreto tra loro.

E quando nel 2002 Caponnetto se ne andò lei, seppur con sofferenza per la mancanza, continuò – come il marito – a girare l’Italia per far conoscere la figura di Nino e il suo lavoro a Palermo. Se ne va una moglie, una madre, una nonna per molti di noi. Non basterà mai un grazie ma nessuno di coloro che l’ha conosciuta la dimenticherà mai. Ciao, nonna Betta.

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