“Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari (verbali formato Word, consegna nell’abitazione privata dell’imputato tramite chiavetta Usb), e le precauzioni adottate in occasione del disvelamento ai consiglieri – avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici – appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale“. Lo scrivono i giudici della Prima sezione penale del Tribunale di Brescia nelle motivazioni della sentenza che lo scorso 20 giugno ha condannato a un anno e tre mesi di reclusione (con pena sospesa e non menzione nel casellario giudiziale) Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite ed ex membro togato del Consiglio superiore della magistratura, per rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio.
Il caso – La vicenda è quella nota dei verbali degli interrogatori resi dall’avvocato Piero Amara – ex consulente esterno dell’Eni – al pm di Milano Paolo Storari, in cui si parlava dell’esistenza di una presunta loggia massonica segreta chiamata “Ungheria“, della quale avrebbero fatto parte politici, magistrati, alti funzionari e imprenditori. Storari, lamentando un’inerzia investigativa dei suoi capi (l’allora procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunta Laura Pedio) li aveva consegnati in via informale a Davigo, che a sua volta li aveva mostrati (o ne aveva descritto il contenuto) a cinque consiglieri, alle sue due collaboratrici Giulia Befera e Marcella Contrafatto, al vicepresidente dell’organo David Ermini, al primo presidente e al procuratore generale della Cassazione (membri di diritto dell’organo) e al presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra. Per la diffusione delle carte anche Storari è stato imputato per rivelazione di segreto d’ufficio, ma lo scorso 27 marzo è stato assolto in rito abbreviato “perché il fatto non costituisce reato“. Davigo, tramite la sua difesa, ha già annunciato ricorso in appello.
“Non dimostrato che non fosse opponibile il segreto” – Nella sentenza si legge che l’ex consigliere Csm ha “cavalcato l’inquietudine interiore” di Storari, “che si era rivolto a lui con circospezione, essenzialmente per avere un consiglio” sul da farsi. A fronte delle titubanze del collega, Davigo aveva sostenuto che al Consiglio superiore e, dunque, “per traslazione ai singoli componenti”, non fosse opponibile il segreto, convincendolo “a compiere un atto extra ordinem quale la consegna brevi manu di copia dei verbali secretati, benché, in teoria, la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di fare un plico riservato”. Per il collegio presieduto da Roberto Spanò, “l’istruttoria dibattimentale non ha fornito la sponda alla tesi della non opponibilità del segreto investigativo ad un singolo consigliere, così come del resto non ha trovato appiglio l’eventualità che fosse ammissibile la circolazione di atti riservati in assenza di passaggi formali”. Nel corso del processo, l’ex pm si è difeso affermando di non aver interessato il Csm in via formale perché tra i presunti appartenenti alla loggia erano citati anche due consiglieri, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti (le accuse di Amara non hanno mai trovato alcun riscontro). Secondo i giudici, però, non vi sarebbe stata comunque “ragione alcuna di informare” il Consiglio superiore dell’esistenza dei verbali “in assenza dell’iscrizione” nel registro degli indagati “di nominativi di magistrati”. Inoltre, scrivono, “il dottor Storari si era rivolto a Davigo per rimuovere l’impaccio all’indagine e non per denunciare i colleghi menzionati da Amara”.
“Incontinenza divulgativa”, “cortocircuito fuorviante” – In ogni caso, per i giudici, “le motivazioni offerte dal dottor Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegate ma in nessun caso ricollegabili a fini ordinamentali”. La vicenda, anzi, “dimostra come, con il proprio incedere, l’imputato abbia allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione e non si sia “acquietato” nemmeno dopo aver raggiunto lo scopo asseritamente perseguito, ossia quello di instradare il procedimento “Ungheria” nei binari della legalità, quando la Procura della Repubblica di Milano aveva iscritto la notizia di reato il 12 maggio 2020″. Alla luce di quanto emerso, “viene da ritenere che tra il dottor Storari e il dottor Davigo si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante“, si legge nel provvedimento.
“Vicenda avvolta da una coltre di opacità” – La sentenza sottolinea, inoltre, come nel dibattimento non sia “stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa “self made” o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra”. Infatti, scrive il collegio, “gli albori della vicenda (…) appaiono avvolti da una coltre di opacità”: in particolare, “numerosi indizi suggeriscono che il dottor Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dottor Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020″. Nel processo, però, si è “assistito a un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive e indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti”.
“Terra bruciata intorno ad Ardita” – Nel procedimento si è costituito parte civile Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Catania, ex consigliere del Csm e fondatore insieme a Davigo del gruppo Autonomia e indipendenza: l’imputato è stato condannato a risarcirlo con ventimila euro. L’ex pm “ha utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno al dottor Ardita” ma non è dimostrato che “abbia strumentalmente ottenuto prima – e divulgato poi – i verbali di Amara animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico”, scrivono i giudici. “I testi escussi, con l’unica eccezione” di Nino Di Matteo, anche lui ex consigliere Csm, hanno infatti “ritenuto infondata l’illazione della parte civile, secondo cui l’inimicizia – e non la radicata convinzione della appartenenza massonica – avrebbe avuto un ruolo determinante nell’interesse dedicato dal collega alla vicenda”.