Quanta approssimazione, dovuta a incompetenza della materia, nelle analisi pseudo manageriali dei fenomeni sportivi. Nelle ultime ore gira insistentemente sui social e sui media il claim: “Con Giuntoli la Juve vuole replicare il modello Napoli”. Non basta l’ex direttore sportivo della società campione d’Italia per riprodurre un modello imprenditoriale vincente (che non si basi solo sui risultati sportivi).
Innanzitutto perché la differenziazione è l’essenza della strategia, la prima fonte di vantaggio competitivo. I soldi si fanno non solo svolgendo un’attività importante, ma riuscendo a differenziarsi rispetto ai propri concorrenti e, nel farlo, servendo il proprio zoccolo duro di clienti in modo migliore e più profittevole. Più questa differenziazione è netta, maggiore sarà il vantaggio.
La differenziazione del modello Napoli risiede nella capacità di garantire la continuità dei risultati economici e sportivi con una tipologia di gestione imprenditoriale atipica (e, per questo motivo, innovativa) per il mondo del calcio, adatta ad un determinato contesto socio-economico (tifoseria poco vincente e meno esigente, reddito medio pro-capite nettamente inferiore rispetto a quello del centro-nord), di natura familiare (e non familistica) che si basa su tre pilastri:
Tali elementi sono comunque una conseguenza della legittimazione di una leadership aziendale, quella di Aurelio De Laurentiis, assolutamente inedita rispetto al tradizionale modello dinastico-industriale. Un imprenditore, ricordiamolo, che non compare nella classifica di Forbes dei primi 65 ricchi del paese: un capitalista ma non un magnate, non uno di quelli che si potrebbe permettere anche di ricapitalizzare sistematicamente le perdite derivanti da una gestione inefficiente.
E, a tal riguardo, forse potrebbe essere illuminante soffermarsi sul fatto che dei primi 65 ricchi italiani, solo 6 (il 9%) sono ancora dentro al business calcio: Agnelli-Elkann con la Juventus, i Berlusconi con il Monza, Renzo Rosso con il Vicenza, i Percassi con l’Atalanta, Iervolino della Salernitana e gli Squinzi con il Sassuolo.
Pertanto, anche se la differenziazione rappresenta l’anima di un modello ripetibile (vedi il caso Bari), necessita sempre e comunque del supporto di un’organizzazione rigorosamente focalizzata. Le differenziazioni forti creano i profitti più durevoli quando un’azienda le trasmette a tutto il personale del front-line (in questo caso lo staff tecnico e i calciatori) sotto forma di principi chiari, socialmente responsabili e non negoziabili (ad esempio che i “contratti si rispettano”).
Non bisogna infatti dimenticare che, nella maggior parte dei casi di aziende che vogliono recuperare high performance, replicare (meglio dire copiare) è proprio l’ultima cosa da fare. L’esperienza dimostra che la stragrande maggioranza delle aziende che hanno davvero successo non si reinventa attraverso periodiche strategie che alternano momenti di attività “frenetica” a momenti di rifiuto di tutto quello che è stato elaborato in precedenza. Quello che fanno è, piuttosto, continuare a costruire basandosi rigorosamente sulla propria differenziazione di fondo e capitalizzando gli inevitabili errori (rivedi il caso Bari).
È possibile trovare aziende dalle elevate performance come queste in quasi tutti i settori. Ma la cruda verità sui mercati più caldi (e ricordiamo che il calcio professionistico in Italia cumula circa 1,2 miliardi di euro di perdite) è la seguente: sul lungo periodo, la differenziazione strategica di un’azienda e la sua capacità di execution contano per la sua performance molto più (almeno quattro volte tanto) del settore di cui si trova a far parte. Ogni settore ha leader e inseguitori e di solito i leader sono quelli che presentano un maggiore grado di differenziazione.
I conti alla Juventus non si sono aggiustati né con i gol di Higuain né con il bel gioco di Sarri e le high performance aziendali difficilmente saranno ottenute solo con il mercato di Giuntoli. Forse sarebbe meglio se la Juventus provasse ad acquistare direttamente Aurelio De Laurentiis.