Hai patteggiato una condanna definitiva per associazione mafiosa? Da oggi puoi continuare a fare impresa, ricevere finanziamenti pubblici e contrattare con lo Stato. Merito dell’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia e della sua riforma penale, che a parecchi mesi dall’entrata in vigore continua a produrre effetti criminogeni. L’ultimo esempio arriva dalla Sicilia: con ordinanza del 28 giugno, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (l’equivalente del Consiglio di Stato, ma con competenza sull’isola) ha sospeso in via cautelare un’interdittiva antimafia disposta nei confonti di un imprenditore di Partinico, attivo nel commercio all’ingrosso di macchine agricole e industriali. La misura era stata applicata dalla Prefettura di Palermo perché nel luglio 2020 il commerciante era stato condannato, con sentenza di patteggiamento, a un anno e dieci mesi di reclusione per 416-bis. In base al codice antimafia, quindi, era scattato il divieto automatico di esercitare la professione e (a maggior ragione) di vincere appalti pubblici. Ma ora, ha detto il giudice amministrativo, quella previsione non vale più. Il motivo? Un passaggio della legge Cartabia che ha modificato così l’articolo 445 del codice di procedura penale: “Non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano il patteggiamento a una sentenza di condanna”.

E qui sta il succo della questione: secondo i giudici amministrativi siciliani – che citano una “costante giurisprudenza” a sostegno – anche le norme del codice antimafia sono “diverse da quelle penali”, perché “disciplinano istituti di natura esclusivamente preventiva e non punitiva”. Pertanto – si legge nell’ordinanza dal consigliere estensore Antonino Caleca – “la sentenza di patteggiamento, relativa anche a uno dei reati ritenuti ostativi ai sensi del codice antimafia (come il 416-bis c.p.), non può (più) ritenersi equiparata alla sentenza di condanna”. E così, in attesa del giudizio di merito, il Consiglio di giustizia ha accolto il ricorso dell’avvocato Giovanni Lentini, sospendendo l’efficacia dell’interdittiva e sconfessando la decisione del Tar che ad aprile aveva respinto l’istanza. Per il collegio di secondo grado, infatti, sussistono entrambi i requisiti per accogliere il ricorso cautelare: il fumus boni iuris, cioè l’apparente fondatezza della domanda, e il periculum in mora, cioè il rischio di conseguenze economiche negative per l’attività. La decisione segna un precedente importantissimo: d’ora in poi basterà un patteggiamento per aggirare in un colpo solo tutta la normativa di prevenzione.

Ad spalancare agli imprenditori mafiosi la possibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, peraltro, ci ha già pensato il nuovo codice degli appalti, approvato in via definitiva a fine marzo dal Consiglio dei ministri su delega del Parlamento. La legge infatti ha modificato la norma che imponeva l’esclusione automatica dalle procedure dei condannati definitivi per mafia, terrorismo, corruzione, truffa, riciclaggio, false comunicazioni sociali, turbativa d’asta e altri gravi reati. Nel vecchio codice (articolo 80), i provvedimenti giudiziari che facevano scattare il ban sono tre: la sentenza definitiva di condanna, il decreto penale di condanna irrevocabile e la “sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti“, cioè il patteggiamento. Nel nuovo testo, entrato in vigore il 1° luglio, l’articolo 94 ha fatto saltare quest’ultimo riferimento: basterà convincere un pm a patteggiare per avere un salvacondotto valido per qualsiasi gara d’appalto. Una novità introdotta proprio per adeguarsi alla riforma Cartabia e nullità delle disposizioni extra-penali che equiparano il patteggiamento alla condanna: per lo stesso motivo, a chi concorda una pena non si può più applicare nemmeno la legge Severino, che impedisce le candidature in Parlamento o negli enti locali a chi ha riportato una condanna superiore a due anni.

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