Al Premio Strega non vince il romanzo “di qualità”, ma il “romanzo via-di-mezzo”. Una volta letto il saggio di Gianluigi Simonetti, Caccia allo Strega (nottetempo), lo scenario letterario italiano non vi parrà più lo stesso. Tremate, tremate, la critica spietata è tornata. Simonetti, docente di Letteratura italiana contemporanea all’università di Losanna, l’avevamo già avvistato nel compendio criticamente misurato ma contenutisticamente ricchissimo de La letteratura circostante (IlMulino) sorta di mappatura e catalogazione generale del romanzo italiano contemporaneo.
Con Caccia allo Strega, e soprattutto nelle sue ultime 40 pagine, Simonetti, novello Norman Bates, affonda il coltello ripetutamente sotto la doccia di una letteratura dell’oggi sempre più sanguinolenta midcult, nata per il compiacimento pregiudiziale progressista e alla moda, e per diventare ancora prima di finire in mano al lettore forma seriale per cinema, web e tv. Per arrivare alla ricetta Strega – corsivo nostro – Simonetti parte da un quadro ampio e generale. Nella narrativa contemporanea “la novità degli ultimi decenni consiste da un lato nella quasi espulsione del racconto breve dalla ribalta culturale, dell’altro nella trasformazione del romanzo in macchina del racconto e da intrattenimento, inserita in un più generale clima di narrativizzazione universale, se non proprio di romanzizzazione dell’esistenza”, spiega il docente. Insomma, il romanzo a cui ci siamo già abituati, forse nemmeno essendone consapevoli “si attiene a un registro realistico piatto, a bassa temperatura formale”; la letteratura “tende sempre più spesso alla performance: rilutta a conservarsi solo scritta” e addirittura ingloba definitivamente “il corpo stesso dell’autore”. A questo punto gioco facile descrivere cosa sono diventati i premi letterari più prestigiosi storicamente: da un lato si continua a tenere accesa, anche solo per pudore, la fiammella della “tradizione secolare di consacrazione sociale del talento artistico” e dall’altro si “promuove e regolamenta il valore economico del romanzo in un mercato desacralizzato”. Più un seguire le tendenze, quindi storia del gusto, che “di canone che appartiene alla storia letteraria”.
Inevitabile che lo Strega sia così “finito col diventare in Italia un territorio strategico dove s’incontrano fermenti artistici più o meno genuini e schietti interessi commerciali; e che testimonia del peso crescente del mercato nel sistema delle arti”. Lo sfacelo è spiegato bene esaminando con un perforante scandaglio una mezza dozzina di titoli che hanno vinto o sono finiti nelle cinquine dello Strega negli ultimi anni: da Via Gemito di Starnone (titolo verso il quale Simonetti concede analisi generose e sentite) fino al motivato fastidio che sembra provare per Non ti muovere della Mazzantini, M. Il figlio del secolo di Scurati e Le assaggiatrici della Postorino, infelice exploit al Campiello e nelle prossime ore probabile Strega 2023. Lo “schema morale” dei titoli vincitori dello Strega nell’ultimo decennio è “ricorrente”: “I buoni sono buoni (e colti) i cattivi cattivi (e ignoranti)”; e ancora: sono opere che puntano “al fascino della vicenda” più che al “come raccontarla”. Secondo Simonetti, del resto, si tratta di romanzi che parlano sia al lettore forte ma anche a “quello culturalmente informato e connesso che di letteratura vera e propria non sa e non vuol sapere, perché ha imparato a rimpiazzarla con le “storie”.
L’autore di Caccia allo Strega qui si fagocita gioco, set, incontro: “il bello dello Strega è che (…) permette di veder al lavoro la “macchina” del romanzo contemporaneo, il cui scopo è quasi sempre più comunicativo che estetico, rassicurante più che critico”. Eccola allora la ricetta per vincere lo Strega: “sinossi di agevole riconoscimento (…) facile da comunicare attraverso i media”; la possibilità di poter dire che “è un romanzo su qualcosa” e “che siano toccati “uno o più temi di sicura presa se possibile legati al dibattito contemporaneo”. “Lo stile” poi “dovrà esser veloce possibilmente semplice, mai inconcludente, mai tortuoso” e “fondamentale che sia evocato un conflitto di valori (…) con posizioni in campo nette (..) emotività tanta purchè sia sempre chiaro chi ha ragione e chi ha torto”. Caratteristica ironicamente imprescindibile, infine, che Simonetti fa risalire alle pratiche nefaste di recenti scuole di scrittura incapaci di insegnare come tirare i fili della chiusura del narrato, è che il romanzo “non deve finire affatto”.