La necessità di un salario minimo non è questione di destra o sinistra. È la prima osservazione che ci restituisce un sondaggio della “Noto” pubblicato giovedì 6 luglio su La Repubblica, secondo cui il 64% della popolazione italiana sarebbe favorevole a “una soglia minima legale inderogabile per i salari”.
Che sia elettore di Fratelli d’Italia o del M5S, di Forza Italia o del Pd, il risultato non cambia: il salario minimo convince.
Un tale favore può lasciare interdetti, soprattutto quando viene da elettori dell’ultradestra di casa nostra (ma anche di un Pd assolutamente recalcitrante fino a pochi mesi fa). Quella fieramente contraria al salario minimo: “specchietto per le allodole” per il Presidente del Consiglio Meloni; misura che “andrebbe a danneggiare i lavoratori che guadagnano meno” per il ministro degli Esteri e leader della Forza Italia post-Berlusconi, Antonio Tajani.
Com’è possibile questo scollamento tra elettori e dirigenti?
Perché gli elettori fanno esperienza diretta di quella che rimane la frattura fondamentale – uno dei quattro “cleavages” che Rokkan individuava come le basi su cui si sono costruiti tradizionalmente i partiti politici – che attraversa le nostre società: quella capitale/lavoro.
E, nello specifico dell’Italia del XXI secolo, l’enorme maggioranza della popolazione fa esperienza di un mondo del lavoro caratterizzato dai bassi salari. Ma non per tutti. Oltre a stipendi che rendono complicata una vita dignitosa, la maggioranza fa infatti esperienza anche di un altro fenomeno: l’osceno – perché realizzato sullo sfruttamento dei dipendenti o della comunità tutta, tramite l’evasione fiscale – arricchimento di un minoritario ma potente segmento della società. Che aumenta un senso di ingiustizia subita, ma anche di possibilità: i soldi ci sono, solo che sono distribuiti male. Servirebbero dunque interventi per cambiare direzione.
L’esperienza del mondo del lavoro “povero” è in tantissimi casi diretta. Ma anche chi non la vive sulla propria pelle, la sente. Perché tocca persone di immediata prossimità: significa che chiunque di noi, a meno che non viva nell’iperuranio della ristretta minoranza di super-privilegiati, conosce un amico/figlia/sorella/cugino/vicino di casa/ecc. che soffre bassi salari e altissimo tasso di precarietà.
Il fatto che la frattura capitale/lavoro sia vissuta direttamente (o per “immediata prossimità”) dalla maggioranza di questo Paese spiega perché sul tema la propaganda della destra mediatica, ma anche del progressismo mediatico – penso ai liberal che sono anche in tanta “sinistra”, non affondi come un coltello nel burro.
E ci dà anche preziose indicazioni politiche per il futuro.
1. Un progetto politico – roba ben diversa dalla tiritera delle alleanze elettorali di cui sono piene le pagine dei giornali e i servizi dei tg, ma anche le dichiarazioni degli stessi politici – nasce necessariamente dalla capacità di individuare una risposta ai bisogni espressi, in maniera a volte cristallina, altre volte più confusa, della parte di popolazione che individuiamo come “nostra”. Nel senso che le “apparteniamo”, che, con i “nostri”, condividiamo l’appartenenza allo stesso blocco sociale. Oggi uno dei bisogni espressi con più forza è: aumentare gli stipendi!
Intorno al salario minimo, insomma, si può costruire un progetto politico.
2. La “trasversalità” del favore che incontra il salario minimo è tale in termini politico-elettorali. Se la guardiamo dal punto di vista della composizione sociale della nostra popolazione il termine “trasversalità” perde di senso. Il salario minimo piace perché piace ai lavoratori, che sono la maggioranza della popolazione. È gradimento di classe, non elettorale.
3. Se è vero, vuol dire che un progetto politico che voglia mettere radici nel futuro, più che inseguire le piccole nicchie elettorali di qualche partito rivale dovrebbe rovesciare il tavolo e mettere al centro della propria costruzione – anche di consenso – la condizione materiale di esistenza della maggioranza sociale e non l’identità politica degli elettori.
4. Infine, ritornando all’inizio per completare la risposta: se c’è una così ampia maggioranza a favore del salario minimo, com’è possibile che al momento del voto si scelgano proprio quei partiti più avversi a questa misura (FdI in primis)?
Una chiave interpretativa ci porta a segnalare che ciò ha a che fare con l’agenda politica e mediatica del Paese. Un’Italia in cui il tema salari è prima pagina pochi giorni all’anno mentre le borseggiatrici rom riempiono i palinsesti televisivi per mesi e mesi, è un’Italia in cui potere economico, politico e mediatico stanno lavorando per costruire un’agenda che crei la domanda di più sicurezza “poliziesca” e non di più sicurezza economica e lavorativa. E quali sono i partiti che più si caratterizzano per l’offerta politica di fronte a questa domanda?
I media sono il grande attore di produzione di senso comune, agenda e consenso. Non possiamo mai dimenticarlo. C’è però un elemento che può cambiare l’ordine “naturale” delle cose secondo il potere mediatico: l’irruzione sulla scena della mobilitazione popolare che, come dimostrano altri Paesi europei, è l’unico che può cambiare agenda. Per questo non bastano le proposte di legge, ma servono gambe solide. Altrimenti non si cammina e si piantano solo bandierine.