Il numero degli sbarchi non accenna a rallentare e i migranti arrivati a Lampedusa nelle ultime 48 ore risultano tutti partiti dalla Tunisia. La Commissione europea aveva annunciato già per la settimana scorsa un memorandum con il Paese nordafricano, con l’intenzione di bloccare le partenze. Ma dell’intesa ancora non c’è traccia. Al contrario, il default finanziario del Paese è considerato sempre più probabile. Anzi, secondo alcuni analisti potrebbe addirittura essere innescato intenzionalmente. Del resto la trattativa con il Fondo Monetario Internazionale per il pacchetto di salvataggio rimane in stallo bloccando anche gli aiuti economici offerti dalla Commissione Ue. E mentre parte della società civile tunisina si oppone al negoziato con la Ue, sale la tensione tra i residenti e i migranti subsahariani, in particolare nella città di Sfax da cui partono i barconi diretti in Italia. Molti migranti sarebbero stati portati in altre zone del Paese, ma alcune organizzazioni tunisine denunciano anche il respingimento di 120 persone in Libia da parte dei militari di Tunisi, compresi richiedenti asilo, donne incinte e minori. E Human Rights Watch parla addirittura di 500 migranti susbahariani deportati dalle autorità nella zona militarizzata lungo il confine, riportando testimonianze di torture e stupri. “Deportazioni e violenze documentate da tempo”, denuncia la ong Alarm Phone, che chiede all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) “di agire e garantire il suo mandato” perché gli ultimi eventi sono “un’altra prova che la Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro”. E se Roma e Bruxelles possono aspettare, il 4 luglio il presidente tunisino Kais Saied ha chiamato il capo del Governo di unità nazionale libico, Abdulhamid Dabaiba, per trovare soluzioni condivise al problema.

Dopo che la visita a Tunisi del commissario Ue per l’Allargamento, Oliver Varhelyi, è stata più volte rimandata, della firma del memorandum tra la Tunisia e la Commissione europea non si è saputo più nulla. La versione ufficiale è che le visite coincidessero con una delle principali festività del Paese, ma terminate le feste sulla missione di Varhelyi è sceso il silenzio. Il 6 luglio il portavoce della Commissione Eric Mamer ha detto di non avere “commenti da fare”. Così ha fatto anche la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson. In visita il 4 luglio a Lampedusa, ha garantito che la discussione prosegue, ma ha preferito glissare sulle domande della stampa in merito alle richieste della presidenza tunisina. Intanto un mese fa gli Stati dell’Unione si sono accordati sulla cosiddetta solidarietà obbligatoria: chi non vuole prendersi una quota di richiedenti o rifugiati dai Paesi di primo ingresso come l’Italia pagherà un contributo di 20mila euro per ogni migrante non accolto, ma nessun obbligo di ricollocamento. L’accordo ci penalizza, ma il governo italiano ha preferito parlare di un cambio di approccio dell’Ue, finalmente persuasa di dover investire sulla “dimensione esterna” per bloccare le partenze grazie alla collaborazione di Paesi terzi come la Tunisia. Nelle intenzioni dell’Italia, ma anche della Commissione Ue che dovrebbe siglarlo, l’intesa con la Tunisia dovrebbe rappresentare un “modello”. Oltre ai rimpatri dei tunisini, l’Italia conta di poter espellere i migranti le cui domande d’asilo saranno dichiarate inammissibili in base al principio della “connessione con un Paese terzo”, anche se non è quello di origine. Un’opzione inserita anche nell’accordo raggiunto lo scorso 9 giugno dal Consiglio Ue Affari interni. Sul fronte del diritto le incognite sono molte e il testo votato a maggioranza dovrà in ogni caso passare dal Parlamento Ue, cui spetta l’approvazione definitiva del Patto Immigrazione e Asilo. Ma anche fosse approvato, per consegnare i migranti a Saied l’Unione e l’Italia devono poter continuare a considerare la Tunisia un Paese terzo sicuro. Fino a che punto?

Le agenzie di rating considerano ormai probabile il default della Tunisia. Un rischio da non escludere anche per Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis-Group, che suggerisce di “prepararsi al possibile scenario e a offrire misure di finanziamento di emergenza per ridurne l’impatto”, ha detto il 4 luglio durante l’audizione in Commissione Affari esteri e Difesa al Senato. Ma questo, precisa, “non significa dare carta bianca a Saied, del quale preoccupano le tendenze sempre più ideologiche, panarabe e anti-occidentali“. Sullo stallo nella trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, che in cambio di un pacchetto di salvataggio da 1,75 miliardi chiede riforme a partire dall’abolizione di una serie di sussidi statali cui Saied non intende rinunciare, Gazzini suggerisce maggiore flessibilità, notando come al momento a sostenere l’accordo ci siano gli Stati Uniti mentre Italia e Francia rimangono su posizioni ambigue e l’Algeria addirittura appoggia Saied nel rifiuto delle condizioni. “Ma non ci si illuda che la Tunisia accetti per forza l’accordo col FMI e la Commissione Ue, né si può escludere che per motivi ideologici il presidente opti intenzionalmente per il default“. Una situazione che, dice l’analista, non solo aumenterebbe l’immigrazione (anche verso l’Ue, ndr) e il contrabbando con la Libia e l’Algeria, ma spingerebbe la crescita di un tasso di cambio parallelo e il mercato nero. “Con ripercussioni politiche e di sicurezza ancora più gravi: attentati e incidenti violenti, aumento dell’attività criminale che metterebbero le forze di sicurezza sotto pressione spingendole a intensificare ancora di più la repressione”. Anche per questo, aggiunge, “oltre all’assistenza economica Ue e Italia dovrebbero pretendere maggiore impegno sul fronte della pace civile e nell’applicazione di una politica più tollerante”.

Al rischio default si aggiungono infatti la tensioni innescate anche dallo stesso Saied, che nei mesi scorsi ha dichiarato di volersi opporre alle “orde illegali di migranti subsahariana” e a una “africanizzazione” della Tunisia. Secondo gli osservatori internazionali, il clima da “caccia al nero” ha già spinto molti stranieri ad abbandonare il Paese. Mentre la città di Sfax, denuncia il Forum tunisino per i diritti economici e sociali, si è trasformata in una trappola per migliaia di migranti che ora vivono per strada e senza lavoro. Secondo il portavoce Romdhane Ben Amor, “vengono percepiti come una minaccia a causa dell’assenza dello Stato e dello straripare sui media dei discorsi di istigazione”. Negli scontri tra migranti e residenti, il 3 luglio è rimasto ucciso un 42enne tunisino. L’omicidio ha portato a nuove tensioni e manifestazioni contro i subsahariani, molti dei quali sono stati evacuati con la forza dalle autorità. Secondo la Lega tunisina per la difesa dei diritti umani, molti sarebbero stati trasferiti nel Sud del Paese, presumibilmente in centri per migranti nel governatorato di Medenine. Il deputato tunisino Moez Barkallah ha invece indicato che “1.200 migranti subsahariani sono già stati espulsi, da fine giugno ad oggi”, e che l’obiettivo è di arrivare a quattromila entro la settimana”. Le espulsioni, ha detto in una dichiarazione all’agenzia Tap, sono state fatte “a partire dalla città di Sfax verso le regioni di confine in Libia e Algeria che supportano questo tipo di operazioni“.

Operazioni che comprendono quelle che da giorni vengono denunciate come “deportazioni“. Venti persone, parte di un gruppo di 48 arrestate il primo luglio, sarebbe stata vittima di maltrattamenti e percosse da parte della Guardia nazionale tunisina che avrebbe distrutto i loro telefoni e rubato i loro soldi per poi abbandonarle al confine libico. E’ quanto descritto nel comunicato firmato da 23 organizzazioni a partire da quelle della società civile tunisina e nordafricana, ma anche da ong internazionali come Sea Watch e Alarm Phone. “Il 4 luglio, un secondo gruppo di 100 migranti è stato deportato nella stessa località al confine libico. Nel gruppo ci sono almeno 12 bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 5 anni”, dice il comunicato. Tra i respinti anche rifugiati e richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr. A differenza della Libia, la Tunisia è tra i paesi firmatari della Convenzione di Ginevra che impone il divieto assoluto di respingere un rifugiato verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Non a caso, più di un tribunale italiano ha già dichiarato la Tunisia un Paese non sicuro nonostante rientri nell’elenco dei Paesi di origine sicuri secondo l’articolo 2 bis d.lgs. 25/2008. Decisioni che hanno impedito il rimpatrio di cittadini tunisini proprio per l’involuzione democratica e la deriva autoritaria in corso nel Paese.

“La Tunisia è un Paese che accetta la presenza sul proprio territorio solo in conformità con le sue leggi, così come non accetta di essere una zona di transito o un approdo per persone provenienti da più Paesi africani”, è scritto in un comunicato della presidenza tunisina dopo gli scontri di Sfax e l’uccisione del cittadino tunisino, che Saied ha definito “operazione criminale”. Ma, aggiunge il presidente con parole che sembrano rispondere all’Italia, “la Tunisia non accetta di essere custode di confini diversi dal proprio”. Del resto continuano gli appelli di organizzazioni e partiti tunisini che chiedono chiarezza sui termini del negoziato con la Ue. Di ieri quello dell’Osservatorio tunisino per la Difesa della Civiltà dello Stato, certo che “la manifesta fretta dell’Unione europea per la conclusione di questo accordo è la prova che la sua firma preserverà gli interessi dell’Europa, in particolare per quanto riguarda la questione migratoria”. La ong esorta l’Ue a “evitare di approfittare della crisi finanziaria ed economica del Paese e di usarla come pretesto per risolvere la crisi migratoria a scapito della sovranità e della sicurezza della Tunisia”. Insomma, visto dalla Tunisia il memorandum non sembra soltanto una questione di soldi, come siamo forse abituati a pensare a Nord del Mediterraneo. Mentre Ue e Italia aspettano, Saied prende accordi col presidente del Governo di unità nazionale in Libia, Dabaiba, che proprio sul confine tra Libia e Tunisia ha deciso di schierare una forza militare congiunta, “composta da 450 veicoli armati per controllare la strada costiera che dalla capitale Tripoli arriva fino a Ras Jedir, il valico di frontiera con la Tunisia”, scrive l’Agenzia Nova che riferisce anche di nuove torri di controllo lungo un confine di 1.500 chilometri.

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