Il dibattito che si è innescato dopo la decisione degli Stati Uniti di inviare bombe a grappolo all’Ucraina nasconde in sé nient’altro che la necessità di risolvere un ormai secolare quesito: “Il fine giustifica i mezzi”? Perché, nonostante si cerchi di offrire una giustificazione che suoni plausibile alla scelta della Casa Bianca di mettere in mano all’esercito di Volodymyr Zelensky armi dall’impatto devastante sulla popolazione civile, la domanda rimane solo una: quale prezzo siamo disposti a (far) pagare per provare a vincere questa guerra?
Washington ha già dato la sua risposta. Né gli Stati Uniti, né la Russia, né l’Ucraina hanno mai ratificato la Convenzione di Oslo del 2008 sull’abolizione delle cluster bombs o bombe a grappolo. In tutto il mondo, sono 111 i Paesi che hanno detto ‘basta’ all’uso di queste armi letali. Bombe lanciate da velivoli o sistemi di artiglieria che, dopo una prima detonazione, rilasciano in un’area più o meno ampia centinaia di piccole munizioni pronte a esplodere all’impatto col terreno o con edifici, che essi siano militari o civili. Una percentuale di esse rimane invece inesplosa, trasformando l’area in un campo minato pronto a uccidere o mutilare uomini, donne e bambini anche negli anni a venire. Per usare un macabro ossimoro, potremmo definirle delle bombe democratiche: non fanno distinzione tra militari o civili, tra trincee o piazze, tra basi o abitazioni, tra carri armati o auto. Colpiscono con incredibile imprecisione qualsiasi cosa si trovi nel loro ampio raggio d’azione.
Quanto la decisione americana sia estrema lo testimoniano le reazioni degli alleati europei. La Spagna si è detta fermamente contraria, così come la Francia e la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. Perfino la Gran Bretagna, uno dei falchi pro-Kiev, si è opposta. La tristemente debole Italia, invece, per bocca del suo ministro della Difesa Guido Crosetto, ha ricordato di aver aderito alla Convenzione, ma ha voluto rimarcare che la Russia quelle bombe le usa già.
“La Russia quelle bombe le usa già”. È proprio questo l’appiglio di babilonese memoria di chi giustifica la mossa di Washington: occhio per occhio, dente per dente. È vero, la Russia è un Paese governato da un dittatore che non si è fatto scrupoli a bombardare con ogni mezzo l’innocente popolazione ucraina, anche con le cluster bomb. Di più: lo ha già fatto in Siria al fianco di un altro dittatore sanguinario, Bashar al-Assad, per mantenere in vita un regime alleato. Le immagini le abbiamo viste tutti: palazzi sventrati e intere famiglie travolte dalle esplosioni. Tralasciando il fatto che bombe a grappolo americane sono state sparate, ad esempio, in Iraq (più di 13mila in un mese e mezzo e oltre mille civili uccisi), la domanda-chiave sta proprio in questi parallelismi: vogliamo metterci sullo stesso piano di Putin? Vogliamo metterci sullo stesso piano di Assad?
Noi che ci siamo fregiati del ridicolo (e falso) titolo di esportatori della democrazia vogliamo combattere con le stesse armi delle più feroci dittature del mondo? È necessario scendere al livello dell’invasore Putin per respingerlo? E se domani usasse armi chimiche? E se usasse armi batteriologiche? E se sganciasse un ordigno nucleare tattico? Risponderemmo con la stessa moneta? Situazioni come queste mettono i Paesi come il nostro, che si reputano baluardo del rispetto dei diritti umani, di fronte a una scelta esistenziale. Dobbiamo scegliere se rimanere almeno un gradino al di sopra dei peggiori regimi o calarci nel fango, al loro livello, in una discesa che potrebbe diventare senza ritorno.
Vista l’aria che tira tra gli alleati, da Washington hanno voluto precisare: “Kiev ha garantito che non userà bombe a grappolo in aree civili”. Anche se fosse, quelle aree, una volta terminato il conflitto, rimarranno comunque infestate di ordigni pronti a esplodere. Ed è bene ricordare che Zelensky ha già disatteso in passato i diktat di Washington: basta ricordare le diverse reprimende ricevute dopo gli attacchi ormai quotidiani effettuati oltre il confine russo o le incursioni in territorio della Federazione per compiere omicidi mirati. La verità è che, dal momento in cui cedi un’arma, perdi il controllo su di essa, sul suo utilizzo e su chi la maneggerà in futuro.
Il cosiddetto ‘mondo occidentale’ si racconta sempre più spesso di essere il miglior posto al mondo dove vivere. Ed è vero: non abbiamo paura di subire ritorsioni quando ci rechiamo alle urne, le nostre libertà religiose, sessuali, d’espressione sono mediamente rispettate. Non temiamo improvvisi colpi di Stato, dittature militari o la mano pesante delle teocrazie. Ma questo sembra non valere se si tratta di diritti umani al di fuori dei nostri confini. Lo dimostrano le false prove fornite per invadere l’Iraq, il fosforo bianco su Fallujah, l’uranio impoverito nei Balcani, Guantanamo, Abu Ghraib, i black sites della Cia, gli occhi chiusi sulla Palestina, il tradimento dei curdi del Rojavae sì, anche le bombe a grappolo a Kiev: in questi casi, il fine giustifica i mezzi.