di Sara Gandini e Paolo Bartolini
La recente produzione di embrioni sintetici, privi di cuore e di un principio di cervello, da una parte è stata accolta come una notizia esaltante in ambito biomedico ma dall’altra ha sollevato interrogativi profondi nell’opinione pubblica.
“Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule”, ha riferito Żernicka-Goetz, la scienziata che ha presentato i risultati della ricerca. L’obiettivo è indubbiamente nobile: studiare la possibilità di modificare geneticamente le cellule staminali mentre crescono e si differenziano in laboratorio per affrontare il problema di malattie genetiche rare altrimenti irrisolvibili. Tuttavia si intuisce, in filigrana, la tentazione di programmare, quindi avere sotto controllo, la natura e l’essere umano nella loro interezza, plasmando ogni dimensione della vita secondo progetti di intervento sempre più ambiziosi e invasivi.
Anche le notizie che quotidianamente ci aggiornano sui mirabolanti sviluppi della cosiddetta intelligenza artificiale, rafforzano la sensazione che si vada nella direzione di sostituire l’umano, troppo imprevedibile e limitato, con artefatti di sintesi e algoritmi mediante i quali esercitare un pieno controllo su tutto ciò che accade.
A fronte di un orizzonte sociale e politico caratterizzato da guerre, rivolgimenti geopolitici, crisi economica, diseguaglianze sociali che si ampliano e lo sgretolarsi delle strutture democratiche, questo potenziamento inarrestabile delle bio/nano-tecnologie, e del comparto informatico dell’economia capitalistica con la digitalizzazione delle nostre vite, viene presentato come un orizzonte che può salvarci perché ci promette la compatibilità sperata tra sviluppo e governance delle criticità. Da una parte il controllo dei rischi e delle popolazioni, fondamentale alla politica emergenziale, e dall’altra crescita per un’economia finanziaria che ha bisogno di sbocchi per inaugurare un nuovo ciclo di accumulazione (ma quanto duraturo?).
Ci sembra però necessario, frenando gli entusiasmi, domandarci quali ricadute di giustizia e civiltà possa avere tutto questo per noi. L’impressione è che, parallelamente alla narrazione mainstream che magnifica gli avanzamenti scientifici applicati, stiamo assistendo a un evitamento fobico delle relazioni, dei corpi e delle questioni reali sollevate dall’era complessa. Ciò che effettivamente il fare tecnico sta rendendo possibile, è iscrivere ancor di più l’azione mediata dell’uomo dentro un progetto di potenziamento e controllo senza freni, trascurando i delicati equilibri che rendono ciascun organismo non un “individuo” separato, ma un essere in relazione permanente con l’altro da sé e con gli ambienti che trasforma e da cui viene trasformato.
Come rilevò nel 2021 il matematico e filosofo Giuseppe Longo – parlando dell’origine del virus Sars-Cov-2 e considerando le ipotesi principali in discussione: salto di specie (spillover) o fuoriuscita casuale dell’agente patogeno da un laboratorio – si tratta di ammettere che la tecnoscienza contemporanea non conosce affatto i propri limiti e le finezze della complessità del vivente.
Riteniamo che il pensiero filosofico e la ricerca scientifica debbano intensificare i loro rapporti dialogici, come proviamo a fare in questi nostri piccoli contributi a quattro mani, smascherando le semplificazioni tossiche che guidano l’orientamento utilitaristico dominante, quello che vede in ogni fenomeno naturale l’occasione per tradurre il transito inafferrabile della vita in plusvalore, in unità di calcolo priva di ambivalenze (come invece accade nella maggior parte dei vissuti e delle azioni umane). Questo “mito” quantitativo su cui si regge l’intero edificio della civiltà occidentale ipermoderna, non solo è segnato da contraddizioni interne esplosive, ma è nei fatti incompatibile con i miti e i saperi di altre culture, e con la sensibilità più profonda degli stessi occidentali, ormai assediati dal nonsenso di una vita ridotta a puro “funzionamento”.
Le straordinarie scoperte scientifiche che il presente e il futuro ci riservano vanno dunque affrontate con spirito laico, senza mai dimenticare le ricadute esistenziali, politiche, ecologiche implicate in esse. In tal senso dobbiamo farla finita con il concetto cardine della modernità, quello di un progresso lineare garantito dal progetto tecnico di dominio sul mondo, e riprendere a pensare con indipendenza simbolica senza consegnare interamente le nostre vite alla nuova religione: la tecnoscienza.