Per affrontare le sfide del cambiamento climatico, il mondo punta a migliorare la resilienza locale, preparando le comunità a sostenerne gli impatti. È una sfida senza precedenti, priva di esperienze storiche concrete. In questo sforzo, le soluzioni basate sulla natura vengono spesso presentate come una panacea. Crescono per numero e dimensione dei progetti che sfruttano la natura stessa e i processi naturali per favorire l’adattamento climatico e mitigare le conseguenze di attività umane dannose.

In India, in Indonesia e nelle Filippine, le foreste di mangrovie vengono estese per integrare i frangiflutti a protezione delle coste dalle mareggiate e dalle inondazioni. Allo stesso modo, il sud Africa sta ripristinando ove possibile le zone umide di ricarica delle falde acquifere per fare fronte alla siccità, poiché grandi metropoli come Città dal Capo rischiano il bis della tremenda esperienza del Day-Zero — il giorno in cui si sarebbe completamente esaurita l’acqua potabile — vissuta pochi anni fa. E sono tutti progetti di ampio respiro e grande successo.

Le istituzioni internazionali incoraggiano le comunità di tutto il mondo ad avviare soluzioni basate sulla natura, magari integrate nelle infrastrutture moderne più tradizionali. Su questa strada, il mondo potrebbe risparmiare quasi 250 miliardi di dollari all’anno sui costi infrastrutturali. Secondo un rapporto pubblicato dall’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile (Iisd) nel 2021: “le infrastrutture basate sulla natura costano circa il 50 percento in meno delle infrastrutture costruita in modo tradizionale, pur offrendo gli stessi o migliori risultati. Oltre ai minori costi iniziali, le infrastrutture basate sulla natura tendono a essere più economiche da manutenere e più resistenti ai cambiamenti climatici”. E gli investitori, guidati dalla Banca Mondiale, fanno a gara per finanziare progetti “verdi”, nature-based.

Nessuno dubita che le soluzioni nature-based siano promettenti e che la strada maestra da seguire sia questa. Con una visione progettuale complessiva ed esauriente, però. E senza scaricare il problema sul vicino di casa. Non sempre il vicino di casa è quello che sta a valle.

Nel 2011, Khulna, la terza città del Bangladesh, era stata colpita da una grave crisi idrica. Assieme all’impoverimento della falda e all’inquinamento, l’intrusione salina era diventata devastante. Il governo valutò allora diverse opzioni per affrontare la crisi. La prima opzione era tecnologica: costruire dei dissalatori. Ma l’ipotesi venne scartata per il loro impatto inquinante, noto da tempo. Lo scarico della salamoia sarebbe stato particolarmente pericoloso in quel contesto geografico. In alternativa, si valutò una ferrea politica di risparmio idrico, introducendo regole stringenti in tutti i settori: civile, agricolo e industriale. Una politica siffatta fu però giudicata ardua da perseguire e, soprattutto, mantenere a lungo per via della sua impopolarità. Fu perciò intrapresa una terza via, ossia la costruzione di un sistema di approvvigionamento idrico “climaticamente resiliente”. E la soluzione fu premiata dal pronto intervento della Asian Development Bank (AsDB) e dell’agenzia giapponese per la cooperazione internazionale (Jica).

Il sistema avrebbe raccolto le acque dal fiume Madhumati nel villaggio di Mollahat, 40 chilometri a nord-est di Khulna, portandola in città dove, durante la stagione delle piogge, sarebbe stata potabilizzata e quindi distribuita agli utenti. Durante la stagione secca, quando la salinità del Madhumati è molto alta, l’acqua sarebbe stata mescolata con acqua a basso contenuto salino, raccolta all’uopo in un serbatoio durante la stagione delle piogge: una misura necessaria ad abbassare la concentrazione salina prima della potabilizzazione. Tutto nella speranza che questa “soluzione basata sulla natura”, ossia la miscelazione stagionale dell’acqua, potesse bastare anche in caso d’innalzamento del livello marino a medio e lungo termine.

La nuova infrastruttura, completata nel 2019, ha sensibilmente migliorato la vita dei residenti di Khulna, garantendo l’accesso all’acqua al 65 percento delle famiglie dal misero 23 percento di prima. Anche parecchi insediamenti informali hanno finalmente avuto un servizio idrico prima inesistente. Le donne potevano usare l’acqua del rubinetto a orari prestabiliti invece di fare ore di coda per attingere l’acqua dai pozzi. Agli abitanti di Mollahat, però, le cose erano andate un po’ peggio. Il prelievo aveva favorito l’aumento delle salinità nel fiume Madhumati, assieme a una diminuzione dei livelli idrici: in pratica, il progetto di Khulna aveva ridotto la disponibilità di acqua per la pesca e la coltivazione del riso nell’area vasta di Mollahat. E i suoi abitanti, contadini e pescatori, hanno iniziato a insorgere, finora senza esito.

L’impatto ambientale del progetto era stato valutato malamente. Il progetto aveva considerato il bacino del fiume Madhumati come se fosse interamente in Bangladesh, mentre il fiume appartiene al complesso sistema fluviale del Gange, in gran parte indiano. Il Madhumati è stato sbarrato a monte dalla controversa diga di Farakka nello stato indiano del Bengala occidentale, che ne devia le acque impoverendo il deflusso fluviale. E il prelievo ulteriore per dissetare Khulna ha messo in crisi l’equilibrio idrico di Mollahat e delle altre comunità fluviali (vedi Overcoming challenges for implementing nature-based solutions in deltaic environments: insights from the Ganges-Brahmaputra delta in Bangladesh, Environmental Research Letters).

Il progetto di Khulna insegna come non sempre la soluzione “naturale” sia la panacea. Industrie e famiglie di Khulna ne hanno raccolto i benefici, mentre i residenti di Mollahat ne hanno sostenuto i costi. Per evitare questo errore, le autorità locali avrebbero dovuto consultare gli abitanti di quel villaggio e di valle, per giungere a una valutazione corretta dell’impatto di quel progetto. Le autorità locali avrebbero dovuto anche distribuire equamente i benefici tra la popolazione della città e le comunità rurali vicine. Per esempio, avrebbero potuto chiedere alle industrie di risparmiare l’acqua riciclandola, riducendo così la pressione sul fiume Madhumati e, di conseguenza l’impatto sulla comunità Mollahat. Non sempre il lupo sta a monte quando si ha bisogno di attingere allo stesso fiume.

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