1968. Scoppia la rivolta degli studenti, la Fiorentina ye-ye vince a sorpresa lo scudetto e a Firenze entra in crisi il rapporto tra mondo cattolico e industriali. Succede infatti che alla Gover, fabbrica di prodotti di gomma, il proprietario Ugolino Ugolini, che nel 1971 diventerà presidente della squadra viola (sarà lui ad acquistare Giancarlo Antognoni) licenzia un operaio un po’ particolare che indossa la tuta blu ma è un prete. Si chiama don Bruno Borghi, grande amico di don Lorenzo Milani. Motivo? Appena messi i piedi alla Gover, don Borghi si era subito schierato dalla parte degli operai e aveva iniziato a denunciare le condizioni sanitarie in fabbrica, i turni di notte, il lavoro massacrante. Così un giorno Ugolini sbrocca e, attorniato da duecento operai, inveisce e urla contro il prete: “Se ne vada via dalla fabbrica, lei me la rovina”. Il licenziamento di don Borghi, il primo prete operaio in Italia, nel 1950 alla Pignone, diventa un caso nazionale. Il direttore della Nazione Enrico Mattei titola un suo editoriale: Sacerdoti comunisti. Ma in difesa del prete operaio scende in campo Giorgio La Pira con una lettera al papa Paolo VI (“Don Borghi? Parla poco, prega, lavora, soffre, ama”), pubblicata per la prima vota da Beniamino Deidda nella biografia “Bruno Borghi. Una vita senza padroni”, con prefazione di Tomaso Montanari.

L’esempio di don Borghi si diffonde in Italia. Nel 1956 a Viareggio don Sirio Politi inizia a lavorare in un cantiere navale e a Firenze don Renzo Fanfani in una vetreria. Il fenomeno si allarga. La questione operaia infiamma la coscienza di molti preti che scelgono la fabbrica come il luogo per eccellenza della loro missione sacerdotale. Sull’esempio di quanto era avvenuto in Francia, subito dopo la guerra. Tutto è iniziato nel 1943 quando uscì il libro inchiesta “Francia: terra di missione” dell’abate Godin che metteva in evidenza la lontananza dalla Chiesa della classe operaia. Il cardinale di Parigi Emmanuel Suhard decide di fondare la Missione di Francia per recuperare i “lontani” a Dio e concede ad alcuni preti di indossare la tuta degli operai. Ma l’esperienza dura pochi anni perché nel 1954 Pio XII ordina a tutti i preti operai di abbandonare le fabbriche e di tornare in parrocchia.

Da noi, in Italia, l’esperienza dei preti operai riprende con fatica e molti pregiudizi – ricorrente l’accusa di comunismo – sulla spinta del Concilio Vaticano II. Pochi i vescovi però che tollerano l’esperienza: Michele Pellegrino a Torino, Enrico Bartoletti a Lucca e Alfredo Battisti a Udine. Nel 1985 la Cei , la conferenza italiana dei vescovi, invita due rappresentanti del movimento dei preti operai al convegno di Loreto dal titolo “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Ma è l’ultimo invito. Nella Chiesa di papa Wojtyla e poi di Ratzinger non c’è posto per i preti in tuta.

Il filo spezzato è stato riannodato in questi giorni, 38 anni dopo, ad opera del cardinale Matteo Zuppi che ha convocato a Bologna i preti operai ancora vivi e operanti per dire loro che sono un fiore all’occhiello di papa Francesco: “Talvolta la vostra aspra critica alla Chiesa può aver radicalizzato le posizioni, ma penso che oggi sia il momento di ribadire a tutto tondo che la vostra è un’esperienza di Chiesa. Senza di voi i modelli di evangelizzazione sarebbero più stantii. Per questo desidero rendere lode al Signore per quello che siete e che siete stati”.

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