Nel 2017 Giorgia Meloni accusava il governo Gentiloni di aver azzerato i decreti flussi per l’ingresso di lavoratori stranieri, e di averli sostituiti con i migranti irregolari che nel frattempo sbarcavano sulle nostre coste. Per il terzo anno di fila l’Italia emanava un decreto flussi da appena 30mila permessi. Insufficienti rispetto alle esigenze delle nostre aziende e sempre più esiguo rispetto a quanti arrivavano via mare. Equazione imperdibile per chi già allora gridava al “blocco navale”. La teoria di Meloni è ovviamente rimasta indimostrabile, e tuttavia deve aver colpito nel segno visto che il centrosinistra di allora corse ai ripari affidando al ministro Marco Minniti di siglare il famigerato memorandum con la Libia, che sugli sbarchi ha avuto più effetto di quanto ne avrà qualunque decreto partorito successivamente, compresi i più recenti dell’attuale governo. Ma su una cosa Meloni aveva ragione: il sistema produttivo aveva ben altre esigenze e non solo stagionali. Così, senza gridarlo ai quattro venti perché è pur sempre il governo di Meloni e Salvini, la sera di giovedì 7 luglio, in mezzo ad altre questioni il Consiglio dei ministri ha infilato un decreto flussi da 452mila lavoratori stranieri per il triennio 2023-2025. Lontanissimi i tempi in cui l’Italia apriva a quote di 250mila lavoratori stranieri come nel 2006 e 2007. Ma in un Paese che tra il 2015 al 2020 è arrivato a decreti da 12mila ingressi non stagionali su 30mila totali, diventando il fanalino di coda in Europa per permessi di lavoro, quella di Giorgia Meloni è una rivoluzione. E come tutte in tutte rivoluzioni vanno considerate luci e ombre.

“Col decreto flussi il governo ha fatto un bagno di realtà”, hanno dichiarato l’indomani le opposizioni. Ma per quanto alcuni elettori di centrodestra potranno essere più allineati con la preoccupazione di un’imminente sostituzione etnica, la scelta di Meloni e soci non è incoerente con l’idea di favorire un’immigrazione regolare che risponda alle esigenze delle aziende italiane. Certo, a modo loro, è ovvio. Per intenderci vale la pena citare una una lettera di Meloni all’allora premier Matteo Renzi, dopo essere stata rimbrottata da Palazzo Chigi attraverso l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) per i toni usati sul tema degli stranieri. “Periodicamente il governo italiano pubblica il cosiddetto decreto flussi, con il quale stabilisce, in maniera più o meno discrezionale, le quote di ingresso concesse alle diverse nazionalità. Bene, secondo me tra i criteri discrezionali con i quali si stabiliscono queste quote dovrebbe essere presa in considerazione anche l’affinità culturale e la facilità di integrazione”, tuonava la lettera, consigliando di prendere svizzeri e i norvegesi che sono “extracomunitari al pari degli afghani e dei pachistani”. Nonostante l’annuncio del Cdm, com’è ormai prassi il testo del nuovo decreto flussi non c’è ancora. Ma difficilmente si potrà andare tanto per il sottile con numeri che non si vedevano da 13 anni, da quando nel 2010 l’Italia aveva emanato un decreto flussi da oltre 180mila permessi per lavoro. Quello dell’anno scorso, sempre del governo Meloni, prevedeva 82.705 ingressi, ma solo nel click day del 27 marzo le domande presentate erano state 240mila. Tanto che il nuovo decreto aggiunge al precedente 40mila quote per agricoltura e turismo e 136mila nuove quote per quest’anno, 151mila per il prossimo e 165mila nel 2025.

Il sistema produttivo applaude l’iniziativa, anche se l’esigenza manifestata era quasi doppia: 833mila lavoratori stranieri. “Che avrebbe detto Meloni se 500 mila stranieri li avesse fatti entrare la sinistra?”, domanda qualcuno. La risposta più eloquente è il varo alla chetichella che sta accompagnando il decreto. Al di là dei numeri, infatti, quello che l’opposizione chiama “bagno di realtà” è in verità appena un pediluvio. L’Italia è al quarto posto tra i 27 Paesi Ue per numero di permessi di soggiorno. Ma mentre nel resto d’Europa la media dei permessi per lavoro è del 45,2% (elaborazione Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat 2021), in Italia è appena del 18,5%, e gli ingressi per lavoro sono preceduti innanzitutto da quelli per ricongiungimento familiare (44%) e altre ragioni. Un dato che tra l’altro migliora quelli degli anni precedenti, quando nel 2017 si è giunti ad appena 3 permessi su 100 rilasciati per lavoro. In Polonia – che sta dicendo di no all’Italia sull’accordo trovato lo scorso 9 giugno al Consiglio Ue Affari interni sulla questione migranti – su 967 mila permessi di soggiorno rilasciati nel 2021 l’81% è per motivi di lavoro. A dirla tutta, anche nell’incidenza dei permessi per lavoro sulla popolazione residente (8,5 ogni 10mila abitanti) l’Italia non fa peggio di Paesi come Francia e Germania. Ma il Belpaese rimane particolarmente colpito dall’inverno demografico: non facciamo figli e le proiezioni delle Nazioni Unite per i decenni a venire dicono che il nostro Paese decresce a un ritmo doppio rispetto ad altri Stati europei.

Ne fanno meno anche le coppie straniere presenti in Italia e a differenza del passato non riescono più a mitigare il calo demografico. E questo perché, dice il Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche della Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità), ai decreti flussi bisogna affiancare politiche di integrazione che in Italia non vengono implementate, relegando gli stranieri soprattutto dove il lavoro è più povero, con 5 stranieri su 10 che svolgono mansioni al di sotto delle loro qualifiche (per gli italiani si scende a 2 su 10), spesso con retribuzioni misere e connotazioni servili. Non è un caso che i lavoratori stranieri siano sovra rappresentati rispetto agli italiani tra i titolari di contratti a termine, nel part-time involontario e nel sommerso. Secondo il Libro Bianco, quello dell’Italia è un modello di integrazione “di basso profilo” che ha il fiato corto, come dimostra la natalità ma anche i giovani stranieri che acquistano la cittadinanza italiana e poi si spostano altrove in Europa. “Politiche (o non politiche) migratorie che si limitano ad assecondare le aspettative della domanda di lavoro sono destinate, prima o poi, a rivelarsi un boomerang“, avverte l’Ismu. Pesano le carenze nei servizi all’infanzia come la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia, ma anche la burocrazia e l’esclusione delle famiglie straniere da molti benefici economici. Non ultimo, i limiti che il governo ha voluto imporre alla protezione speciale, escludendo la valorizzazione dei legami, sociali, affettivi e professionali costruiti in Italia, non è certo un segnale a favore dell’integrazione. In altre parole, importare braccia non significa per forza importare persone, famiglie, natalità.

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