Ultimo giorno di scuola. I ragazzi delle scuole medie interpretano questo momento come una festa. Sono incontenibili, si galvanizzano vicendevolmente, alcuni hanno portato dei piccoli petardi che provocano soprattutto rumore e cominciano a lanciarli. Nel gruppo si sta determinando il caos e i professori, i bidelli e il preside non sono in grado di contenere l’orda. Si decide di chiamare i carabinieri che finalmente, forse per la suggestione e il timore che incute la divisa, riescono a riportare la calma.
Questa storia di ordinaria difficoltà nella gestione dei preadolescenti, accaduta recentemente, mi faceva ripensare ai miei anni di scuola. Durante le elementari ricordo con un certo fastidio, anche se per fortuna essendo molto bravo non cadevo nelle sue grinfie, un maestro che picchiava (cucchi in testa, tirate di capelli e soprattutto di basette) i miei compagni di classe meno preparati. Alle medie il bidello aveva un atteggiamento aggressivo e appena qualcuno faceva qualcosa che, secondo lui, non andava mollava ceffoni e sadicamente usava una pallina di ferro legata ad un elastico per infliggere dolore.
Durante la terza media un mio compagno di classe, gracilino con le orecchie leggermente a sventola, veniva regolarmente bullizzato da un ragazzotto piuttosto tarchiato e, per l’età, grosso e ben piantato. Ricordo che esasperato nel vedere che il mio amico soffriva (la mia propensione medica e psicologica esisteva già) un giorno affrontai il bullo dicendogli in modo garbato che faceva male perché portava all’altro una sofferenza gratuita. Troppo garbato! Lui come risposta mi mollò un pugno nello stomaco che mi stese. La cosa che mi colpì, oltre al dolore, fu la frase con cui accompagnò questa sua aggressione: “So di avere torto ma voglio avere ragione!”. All’epoca mi pareva assurda, mentre ora capisco che è espressione di una personalità passivo-aggressiva.
Si tratta in genere di ragazzi, sia uomini che donne, educati da genitori che da piccoli si sentivano inferiori agli altri. Per reazione questi padri o madri educano i propri figli ad essere i cosiddetti “maschi o femmine alfa” per rifarsi inconsciamente dei torti subiti. I ragazzi educati (si fa per dire) in questo modo o assumono comportamenti dominanti oppure hanno la sensazione di non esistere emotivamente per i loro genitori. Si tratta di giovani che, quindi, sono passivi in alcuni momenti con le figure di autorità, che gli ricordano i genitori, per poi divenire aggressivi improvvisamente.
Lo stupro risulta spesso il frutto avvelenato di questi maschi che hanno bisogno inconsciamente di sentirsi alfa. Le ragazze alfa pongono in essere atteggiamenti denigratori e distruttivi di altra natura, spesso più subdoli.
Dobbiamo ricordare inoltre che l’educazione sessuale dei nostri adolescenti troppo spesso viene delegata alla pornografia dilagante su internet e fruibile ad ampie dosi dai ragazzi. Nelle storie pornografiche esiste un cliché ripetitivo in cui la donna è sempre compassata inizialmente, ma se forzata diviene vogliosa e disponibile. Se mettiamo assieme un imprinting che sinteticamente possiamo definire da “maschio alfa” e un vissuto sessuale modellato su visioni della pornografia, ecco che forzare una ragazzina a cedere (che poi secondo questo modello sarebbe ciò che lei desidera) risulta naturale. Questi ragazzi si meravigliano che le ragazze facciano così tanto le schizzinose anche perché ritengono che sia per loro un onore poter avere una relazione col maschio alfa.
La complessità dell’educazione risulta da quanto ho scritto evidente. Siamo passati in circa 50 anni da un modello autoritario (professore e bidello che menano) a un sistema passivo ove il pargolo fa ciò che vuole perché, “poverino”, ha le sue esigenze (scuola senza alcun controllo in cui devono intervenire i carabinieri). Entrambi gli estremi fanno acqua da tutte le parti. Se poi i ragazzi subiscono l’imprinting di padri frustrati che con l’età hanno sviluppato, per reazione, un ego narcisistico e ipertrofico ecco che i fenomeni di violenza e stupro appaiono come naturale conseguenza.