Nell’estate italiana è difficile portare le persone al cinema, si sa. Ma noi, antropologicamente vacanzieri durante il tempo libero estivo speso inesorabilmente all’aperto, da un po’ più di vent’anni ci siamo incocciati con l’imitare gli americani e il loro sistema di multisala monstre e blockbuster in uscita 12 mesi su 12 senza curarci del dato sul nostro ethos. Una volta i cinema in estate chiudevano, poi col fresco tornavano a riempirsi di novità e recuperi. Ora sono costretti a stare aperti non solo per i calendari distributivi che non lascerebbero più spazio, ma anche, più volgarmente, per bollette grosse come case e personale numeroso da impiegare in qualche modo. Così tocca sempre più spesso a muscolose pellicole stelle e strisce di tirar su il piatto magro della bella stagione, riportando il pubblico a scieglier loro, e nelle più rosee aspettative, a ripiegar pure sui titoli italiani satelliti. Ma non è tutto oro quel che luccica, o tintinna.
Cominciamo questo trittico yankee con il buon vecchio Tom Cruise e quello che promette di essere l’ultimo capitolo (o più precisamente il penultimo?) della saga sull’erede apocrifo di 007. Parliamo di Ethan Hunt, agente ancora gloriosamente in attività in Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte 1. Nonostante le ben 61 candeline soffiate pochi giorni fa dall’attore di Top Gun e miracolosamente portate, vista la sua freschezza da star-stunt. L’agente speciale Hunt e i suoi compagni d’avventura vengono coinvolti nella ricerca di due speciali chiavi che combinate insieme potranno fermare un’intelligenza artificiale in dilagante espansione come un virus su qualsiasi sistema di sicurezza militare. Segni particolari: nella prima parte Christopher McQuarrie, sceneggiatore, regista e producer del film, mette a ferro e fuoco Fori Imperiali, Rione Monti e Piazza di Spagna realizzando sequenze d’inseguimento obiettivamente gustose per chi conosce Roma.
Sarà la fine del mondo? È ciò che cercano di evitare i nostri eroi, tra salti indicibili verso i fiordi norvegesi e la scena in un treno appeso che sbriciola bestioni un po’ insensati come Fast X. Certo, 163 minuti, per di più della parte uno, fanno pensare, essendo pure il Mission Impossible 7. Sembra che il cinema, ingelosito dalle serie tv, tenda a trattenerci sempre più tempo in sala, anche più volte per storia replicando saghe e spin-off come se non ci fosse un domani. Invece ci sarà, basterà dare i numeri. Alcuni, seri, sono il 12 luglio, uscita contemporanea con gli States e 290 milioni, dollaro più dollaro meno, di un budget che punta a grandi numeri. Appunto. Intrattenimento tutto sommato ben strutturato come un grosso gelato dove i mille gusti vengono pure discretamente miscelati. Ma questo cinema cornucopia, mi si conceda il termine da millenial, non sarà un po’ too much?
Di Asteroid City non si parla molto bene. A Cannes è praticamente passato inosservato e in giro per il mondo ha incassato quasi 40 milioni di dollari, mentre da noi esce il 14 settembre. L’ultimo film di Wes Anderson effettivamente un po’ noiosetto ci è. O meglio, un parterre d’attori come quello proposto sarebbe stato buono per una lunga serie antologica, più che per un film di 104 minuti fortemente cinematografico, ma impostato a piccole parti con tempi di performance, sinceramente, da varietà. Paradossi numerici, direte voi. E pure narrativi, perché nonostante il narratore (scusate il gioco di parole) sia un certo Brian Cranston, la storiella di questa cittadina desertica immaginaria, dove la comunità di giovanissimi scienziati e loro genitori riuniti per una convention viene sorpresa da un simpatico alieno in disco volante, non porta da nessuna parte. Sembra un vorticoso, autocompiaciuto esercizio di stile in forma meta-teatrale dove un cast di attori prepara sul palco uno spettacolo che noi vediamo in forma di commedia filmica.
Con 25 milioni di dollari di budget ha del clamoroso, viste le molte star ingaggiate, ma i cachet pur di lavorare con Anderson si abbassano sempre. E questo è uno dei grandi meriti che spettano da sempre al regista. Ma è pur vero che senza un messaggio, un monito, una morale, o perfino il suo contrario, anche ad amarlo quel geniaccio di texano ci fa sentire comunque topolini che girano a vuoto in una ruota. Finemente costruita, variopinta e generosa di facce preziose come Maya Hawk, Matt Dillon, Margot Robbie, e Tom Hanks, solo per citare i novizi al mondo Anderson, tutto galleggia in superficie senza mai sfondare un’emozione che non sia fine e ironico estetismo. Speriamo che Wes ricominci da qualcosa di più raccolto.
Terminiamo con una sbirciata in sala, su questo ennesimo horror, che pur mantiene saldo un suo pubblico grazie a un’originalità editoriale non così scontata. Insidious – La Porta Rossa, dal 5 luglio bazzica le nostre sale e nella classifica settimanale è al terzo posto con 752 mila euro, sotto i Disney e Pixar Indiana Jones ed Elemental, che invece girano tra i 4,3 e 4,5 milioni. Il resto della classifica è baratro estivo. Il capitolo cinque di questa saga horror-family ha scorpacciato nel mondo ben 68 milioni di dollari su un budget di 16 milioni. Un moltiplicatore economico capace di trovare nel “family” la chiave per portare in sala un pubblico che va anche oltre l’adolescenza.
La produzione BlumHouse resta tecnicamente impeccabile. Si parla di rimozione del trauma all’interno della famiglia Lambert, quelli dei primi episodi. Scontri e incomprensioni tra padre e figlio all’ingresso al college e ci si apre un Altrove, altra dimensione in stile Stranger Things, dove spiriti mostruosi incontrano i vivi. Siam di fronte a un lavoro prettamente tecnico su un impianto drammaturgico fritto e rifritto. Si aggiunga qualche ambizione all’approfondimento psicologico sapientemente imbellettata da Patrick Wilson alla regia, protagonista storico che stavolta esordisce dietro la macchina da presa. Dovremmo ammettere in maniera solidissima, peraltro, pur se in realtà manca di forti immagini iconiche e produzione del brivido. Insomma, questo nuovo horror non spaventa ma incassa alla grande. Insomma, un fenomeno commerciale, non molto artistico, ma da osservare quanto meno per capire i nuovi rapporti tra pubblico e grande schermo.