Altro che “state lì, vi veniamo a prendere noi“, come ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dopo la tragedia del naufragio di Cutro. Quanto sta accadendo a un cittadino afghano e alla sua famiglia mette in discussione tutte le belle parole spese in questi anni a favore di quel popolo. Peggio: tradisce le promesse fatte a chi ha combattuto i talebani al fianco del contingente italiano. Sì, perché oltre ad aver già vissuto in Italia, dove ha imparato la lingua e preso una laurea in giurisprudenza, il protagonista di questa storia ha collaborato a lungo con il nostro apparato militare. Per questo lui e la sua famiglia erano stati contattati per l’evacuazione seguita alla presa del potere dei talebani, nell’agosto 2021. Ma nei giorni concitati della fuga da Kabul la loro evacuazione non riuscì. Con una taglia sulla testa, lui si è nascosto in Tagikistan mentre sua moglie è rimasta in Afghanistan coi cinque figli di cui il più piccolo ha solo due anni. Chiedono all’Italia un visto umanitario per mettersi in salvo che, nonostante tutto, gli viene negato. Tra scuse improbabili e l’accusa di voler “saltare la fila”.

La vicenda è approdata al Tribunale di Roma, sezione Diritti della persona e immigrazione. Dal 2004 al 2010, ricostruisce la giudice Damiana Colla nell’ordinanza dell’8 giugno, il ricorrente “ha vissuto in territorio italiano e vi ha soggiornato anche più di recente (nel 2019) – periodi durante i quali si è evidentemente trovato sottoposto alla giurisdizione persino territoriale italiana – imparando la lingua, studiandovi e formandosi professionalmente al punto da conseguire una laurea specialistica e diverse qualificazioni professionali, collaborando con l’apparato militare italiano sia in Italia che in Afghanistan“. Legami personali e professionali “molto forti con l’Italia e in particolare con membri delle forze militari italiane, al punto da esserne stato contattato all’indomani della riconquista del potere da parte dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, mediante un’offerta di evacuazione per mezzo dei voli umanitari in partenza da Kabul per l’Italia sotto il coordinamento del Ministero della Difesa”. Era l’operazione Aquila Omnia, vanto degli allora ministri Lorenzo Guerini e Luigi Di Maio. Ma su quei voli il nostro non riuscirà mai a salire, “a causa dell’impossibilita di raggiungere Kabul per la situazione di insicurezza del Paese, trovandosi all’epoca per ragioni di servizio nella Valle del Panjshir per difendere tale territorio dall’avanzata dei talebani”, riporta l’ordinanza. Tutto confermato da suo padre, che invece su quel volo è riuscito a salire “proprio grazie ai contatti intercorsi tra suo figlio e gli ex colleghi universitari di quest’ultimo”, ed è oggi a Roma con lo status di rifugiato.

Ma dall’agosto 2021 l’Italia sembra aver cambiato parere. E in tribunale mette tutto in discussione, compresa la legittimità della procura all’avvocato Loredana Leo che la moglie ha potuto inviare solo via mail, visto che i talebani vietano alle donne di camminare per strada senza un familiare di sesso maschile a sorvegliarle. Non solo: citati in giudizio, il ministero degli Esteri e quello della Difesa contestano che la famiglia avrebbe dovuto fare richiesta per il secondo piano di evacuazione, l’operazione Aquila Omnia Bis. Una richiesta assurda perché va fatta con un modulo sul quale già si premette che “l’attuale situazione contingente non permette il nostro supporto diretto per raggiungere l’Italia”, promettendo al più che “la Sua richiesta non resterà inascoltata: faremo tutto ciò che sarà nelle nostre possibilità per agevolare il Suo arrivo nel nostro Paese non appena le condizioni lo consentiranno”. Tutto tranne il rilascio di un visto umanitario. Perché, obietta ancora l’Avvocatura Generale dello Stato, significherebbe “superare le persone che attendono l’ingresso secondo il canale (in principio) predisposto”, quello dei corridoi umanitari che peraltro registrano difficoltà e numeri esigui. Obiezioni che il Tribunale di Roma ha respinto, ordinando ai ministeri il rilascio del visto umanitario e di provvedere “urgentemente” all’ingresso di tutta la famiglia in Italia.

I rapporti con l’Italia e la collaborazione con i nostri militari sono la condizione che il Tribunale ha ritenuto “idonea a ricomprendere le persone degli odierni ricorrenti entro la sfera giurisdizionale dello Stato italiano e a fondare il loro diritto a chiedere e ottenere un visto d’ingresso nel territorio italiano per motivi umanitari, alla luce del pericolo cui sono attualmente esposti”. La causa è stata aggiornata il 12 luglio 2023 per verificare l’effettivo ingresso della famiglia in Italia. Che però non è avvenuto. Intanto, a distanza di anni la famiglia è finalmente riuscita a ricongiungersi in Iran. “La moglie ha venduto ogni cosa per poter lasciare l’Afghanistan con i figli e raggiungere il marito a Teheran, ma la loro situazione rimane estremamente precaria, né si può escludere il rischio di rimpatrio“, avverte l’avvocato Loredana Leo. Che racconta: “Ho scritto tante volte all’Ambasciata perché rilasciasse il visto come ordinato dal giudice, ma non c’è mai stata risposta”. Nel corso dell’udienza, il governo italiano si è limitato a dire che ha iniziato la procedura per inserire la famiglia nelle liste dell’operazione Aquila Omnia Bis, quella bloccata dalla “situazione contingente”. Tra l’altro, fa notare la legale, “questo non ottempera in alcun modo all’ordinanza del Tribunale, confermando che in Italia si entra solo se va bene al governo e nei modi che dice lui, svilendo del tutto il potere giudiziario”. La prossima udienza è stata fissata per il 2 agosto.

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