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“Lo zio non ha non ha nulla a che fare con la sparizione di Emanuela Orlandi”: parla un ex poliziotto. E sui social spunta un audio: “Se dicessi la verità c’è chi mi distruggerebbe prima”

Dopo le rivelazioni su un possibile coinvolgimento di Mario Meneguzzi, tirato in ballo pochi giorni fa in un servizio del Tg de La7, si è riaperto il dibattito sulla sparizione di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro: “Se l’hanno tenuta nascosta per 40 anni vogliono chiudere questa storia ma senza far uscire la verità

“Con la sparizione della nipote non ha nulla a che fare”: lo chiarisce in un’intervista al Corriere un poliziotto, oggi in pensione, che per 20 anni ha seguito il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Lo fa in merito alle rivelazioni su un possibile coinvolgimento di Mario Meneguzzi, tirato in ballo pochi giorni fa in un servizio del Tg de La7 in cui si parla con un certo clamore di un carteggio segreto tra l’allora segretario di Stato del Vaticano Agostino Casaroli e il sacerdote a cui Natalina Orlandi, la sorella maggiore di Emanuela, aveva rivelato in confessione di aver ricevuto, nel 1978, delle avances verbali dal marito della sorella di Ercole Orlandi, suo padre. Su quella pista, che nel servizio de La7 viene definita uno scoop, si indagò già all’epoca senza arrivare e un solo riscontro. Meneguzzi fu pedinato come conferma il poliziotto, “Lo seguimmo, ispezionammo anche casa sua, ma la pista tramontò presto”.

Il ruolo di zio Mario fu importante, nei mesi a ridosso del rapimento di Emanuela. Era il portavoce della famiglia. Fu lui a prendere le telefonate e a trattare con i presunti rapitori al posto del padre Ercole, troppo provato per farlo. “Lavorando al bar della Camera – aggiunge l’investigatore in pensione – avendo amici nei servizi segreti, era normale che anche la famiglia lo investisse del ruolo di risolutore di quella situazione così drammatica. Aveva conoscenze, amicizie, poteva bussare a porte che alla famiglia sarebbero state invece precluse. Ripeto, si rivelò al di sopra di ogni sospetto”. Fu anche pedinato dalla Polizia, a ridosso del rapimento, e non fu trovato nulla che potesse collegare al rapimento. Questa cosa era nota a Domenico Sica già nel 1983. Anche perché Mario Meneguzzi la sera del 22 giugno del 1983, quella in cui scomparve Emanuela, era a Torano, in provincia di Rieti, come verificato già allora.

La pista era nota già, una notizia di 45 anni fa. Lo ribadisce anche Pietro Meneguzzi, figlio del defunto zio, ai microfoni della trasmissione “Quarto grado”. “Mio padre quella sera era a Torano in villeggiatura con mia madre, mia sorella e mia zia Anna. Erano partiti tre giorni prima. Chiamò mio zio Ercole a casa, erano le 9.30 di sera. Mi disse che Emanuela non era rientrata, cercava mio padre, gli disse che era fuori e gli telefonò su in montagna. Ci sono testimoni, interrogarono tutti i parenti, subito. Sanno tutto bene. Indagarono anche su di noi. Noi pensavamo l’avesse presa un balordo. Nel servizio hanno detto che mio padre portò l’avvocato Gennaro Egidio, non è vero. Lo portarono i Servizi. Mio padre propose Gatti, il suo avvocato. Ho saputo in conferenza stampa di queste avances verbali. Chi non vuole che la commissione venga istituita sta facendo di tutto per impedirlo. La commissione può scardinare cose importanti ma il Vaticano troverà una falsa verità”.

La pensa come lui suo cugino Pietro Orlandi: “Se l’hanno tenuta nascosta per 40 anni vogliono chiudere questa storia ma senza far uscire la verità. L’ho detto e lo ripeto”, ma perché hanno fatto questa carognata? Quest’ipotesi è smontabile in 30 secondi. Quello che è successo mi ha fatto capire che il promotore di giustizia del Vaticano Alessandro Diddi non sta cercando altre piste, lui sta cercando questa pista. L’11 aprile, quando mi convocarono, mi dissero che avevano ascoltato l’agente Giulio Gangi, vicino alla nostra famiglia (era un amico dei suoi cugini, nda). Ma lui è morto nel 2022. La loro paura è che parta questa commissione parlamentare. Se riescono a controllare la Procura sanno che con una commissione parlamentare non potrebbero riuscirci”.

Sembra meno fiducioso l’ex poliziotto che ha indagato su Emanuela, che nella sua intervista ha dichiarato: “Pietro fa bene a invocare la commissione parlamentare, ma non credo che questa porterà a risultati concreti. Tra tutte le tantissime piste prese in considerazione e seguite, la più probabile, anche se non dimostrata, resta quella di una sovrapposizione tra un caso di pedofilia interna al Vaticano e un inserimento di soggetti esterni che hanno provato a usare il caso a loro vantaggio. Penso alla banda della Magliana e al tentativo di riavere somme di denaro dal cardinale Marcinkus. Qualcosa di simile a quanto accaduto con Calvi”.

“La verità sta in mano a chi ha più potere e può nasconderla”, la pensava così monsignor Francesco Saverio Salerno, morto nel 2017. Fu consacrato Vescovo da Giovanni Paolo II, e divenne segretario della Prefettura degli Affari Economici del Vaticano. In queste ore circola su Facebook un suo audio diffuso qualche anno fa da un documentario francese. “Certamente c’è chi sa – le sue parole di qualche anno fa – è indiscutibile. Almeno tre persone in Vaticano sanno. C’è la chiesa di Cristo e poi c’è l’organo politico, se anche io dicessi la verità c’è chi mi distruggerebbe prima o eliminandomi o dandomi del pazzo”.