Società

La mania di incidere il nome sul Colosseo è come i selfie al Louvre: ecco perché lo facciamo

E ci risiamo: la mania di scrivere il proprio nome, addirittura di inciderlo magari con una chiave o un temperino sul Colosseo: che ci sia una bella dose di ignoranza è ovvio, i genitori della ragazzina svizzera hanno reagito stupiti: “Ma che c’è di male”. Si arriva forse a capire che non si può aggiungere un disegnino a pennarello alla Gioconda, magari un fumetto che dice quello che pensa – e questo sarebbe già un atto creativo, seppure per niente originale – ma un muro? Via, che c’è di male se ci scriviamo i nostri nomi intrecciati per l’eternità.

A Roma andai, a noi pensai, questo ricordo eterno vi lasciai.

Il fatto però merita qualche pensiero in più e lo appaio a un’altra abitudine non nociva: quella dei selfie di fronte al campo di girasoli di Van Gogh o ad altra opera celeberrima di Jan Vermeer, magari la Ragazza con l’orecchino di perla, rilanciata nella pop cultura da un romanzo e da un film, e poi finita sulle tovagliette per la colazione, le magliette. Non è un dettaglio, non lo si farà mai di fronte a un quadro bellissimo ma a noi ignoto. Come se si condividesse un briciolo di importanza, se quel “Io c’ero” ampliasse la percezione del “Io sono”: si danno le spalle all’opera e noi davanti, tappandola alla vista ma non troppo, perché altrimenti chi capirà che eravamo al Louvre? Il tempo di osservazione dell’opera è di pochi secondi, altre orde armate di bastoncini telescopici per il selfie premono.

Il senso dell’identità appoggiato a un’immagine di sé che dura una manciata di secondi, quelli che precedono il passaggio nel cimitero delle foto del nostro smartphone. Quindi un io transitorio, precario, da rinnovare continuamente. Lo stesso uso di Facebook spesso va in questa direzione: ero lì, facevo questo, e il mondo lo deve sapere. E’ vero che la nostra identità si costruisce sullo sguardo dell’altro, della mamma e del papà, ma poi si autonomizza, siamo capaci di essere diversi, indipendenti. Una certezza che poggi anzitutto sul senso di sé.

La sostituzione della parola immagine alla parola onore dice molto di più di quanto sembra, pur attingendo sempre all’opinione dell’altro su di noi: e la cosa buffa e che l’altro di noi se ne infischia nella maggior parte dei casi, come noi dell’altro.

Rimedi? Piccole sacche di educazione familiare e scolastica, imparare e insegnare a prendersi il tempo per guardare, sentire, odorare con calma la vita.