C’è del vento in Danimarca: che si raggiunga il Paese scandinavo via aria, via terra o via mare, non si potrà fare a meno di notare la placida presenza di innumerevoli turbine eoliche. Copenaghen produce oltre la metà del proprio fabbisogno energetico con il vento, e il 25% viene generato con l’eolico marino a cui guardano con interesse anche i Paesi limitrofi, che stanno dando avvio a un vero e proprio arcipelago di isole energetiche nel Mare del Nord. L’Unione Europea ha dato il suo beneplacito: ridurre di almeno il 55% le emissioni entro il 2030, portando le rinnovabili nel mix energetico almeno al 42,5%, il doppio del livello attuale, sono gli obiettivi di Bruxelles. Ma costi sottostimati, infrastrutture inadeguate e stravolgimento ambientale e paesaggistico rendono questa transizione più semplice a dirsi che a farsi.
“Tutto inizia a metà degli anni ‘70, quando importavamo il 99% della nostra energia dal Medio Oriente”, spiega Iver Høj Nielsen, Head of P4G Activities di State of Green, iniziativa pubblico-privata che riunisce governo danese e associazioni di categoria. “La crisi energetica del ‘73 ci spinse a operare in tre modi: avviando programmi di ricerca per identificare nuove risorse, lavorando sull’efficientamento energetico ed estraendo petrolio e gas dal Mare del Nord per finanziare la transizione verso le rinnovabili”. In quegli anni i primi esperimenti con le turbine eoliche, trent’anni fa il primo parco eolico commerciale al mondo: oggi, con circa 7 GW installati, di cui quasi 5 onshore (su terra) e 2,3 offshore (sul mare) la Danimarca, secondo le stime di Wind Europe, realizza dal vento il 55% del suo fabbisogno di elettricità, di cui il 25% solo attraverso l’eolico offshore. Lo sviluppo è stato segnato da una visione politica condivisa e dalla pressione dell’opinione pubblica. Nella campagna elettorale del 2015 il cambiamento climatico era una questione quasi assente, nel 2017 era diventato il tema più importante per il 27% degli elettori, e nel 2019 si era trasformato nell’argomento più importante, indicato dal 46% dei danesi. Questo orientamento ha portato il Parlamento ad approvare nel 2020 il Climate Act, che intende ridurre in dieci anni le emissioni del 70% rispetto ai livelli del 1990.
Nodo strategico di tali progetti è il porto di Esbjerg, a ovest del Paese, sul Mare del Nord. Principale centro della Danimarca per il trasporto marittimo, il commercio e la pesca dai primi anni del secolo scorso, con le estrazioni di petrolio e gas negli anni ’70 Esbjerg passò ad essere la capitale danese del greggio. Nel terzo millennio il porto ha visto una nuova trasformazione, diventando hub delle rinnovabili, con una movimentazione annua di 1.200 MW di energia eolica offshore: di qui sono passati complessivi 23,6 GW e 4.150 turbine. Lo scorso anno Esbjerg è stata teatro della prima edizione del North Sea Summit, che ha riunito Danimarca, Belgio, Germania e Olanda. Nell’occasione i quattro Paesi hanno formalizzato la “North Sea Coalition”, allargata poche settimane fa anche a Francia, Regno Unito, Irlanda, Norvegia e Lussemburgo. I nove Paesi, con un totale di 175mila chilometri di sviluppo costiero, si sono impegnati a raggiungere una produzione di energia eolica offshore di 120 GW entro il 2030 e almeno 300 GW al 2050. Obiettivi non semplici che esercitano in primis una forte pressione sui porti stessi, che allo stato attuale non hanno la capacità necessaria per sostenere tali volumi. Il summit di Esbjerg è stato quindi seguito dall’avvio di una partnership tra i sei porti chiave per l’eolico offshore del Nord Europa, ovvero Esbjerg (Danimarca), Ostende (Belgio), Groningen/Eemshaven (Paesi Bassi), Niedersachsen/Cuxhaven (Germania), Nantes-Saint Nazaire (Francia) e Humber (Regno Unito) con lo scopo di facilitare lo sviluppo infrastrutturale.
La cooperazione tra i Paesi del Mare del Nord vedrà una nuova frontiera con le isole energetiche: isole naturali con allestimenti ad hoc oppure costruzioni completamente artificiali deputate alla produzione di energia attraverso l’eolico offshore, il fotovoltaico offshore e l’idrogeno. La Danimarca ha in programma lo sviluppo di due isole entro il 2030. Nel Mare del Nord si prevede la costruzione di un’isola artificiale con una capacità iniziale di 3 GW e potenziale di 10 GW. Nel Baltico, invece, verrà costruito un hub energetico attorno all’isola naturale di Bornholm in grado di produrre almeno 3 GW. Questo progetto vede la co-partecipazione tedesca e in prospettiva ci si aspetta di trasferire 1,2 GW da Bornholm e alla regione danese dello Zealand, e 2 GW da Bornholm alla Germania. Le isole energetiche hanno infatti raccolto l’interesse anche degli altri Paesi dell’area. Il Belgio dovrebbe avviare la costruzione della sua prima isola il prossimo anno con l’estensione di una rete elettrica offshore già presente e la connessione degli adiacenti parchi eolici marini per raggiungere una capacità di 3,5 GW, raggiungendo anche Regno Unito e Danimarca. Anche l’Olanda sta lavorando alla propria isola insieme alla Germania, che sarà collegata a Regno Unito, Belgio e Norvegia. Ma le isole saranno collegate anche tra di loro: Danimarca e Belgio hanno raggiunto un’intesa per unire le reti energetiche marine tra i due Paesi, delineando un’inedita ragnatela energetica europea, una nuova filosofia rispetto ai tradizionali parchi eolici marini collegati a un solo Paese, e che si svilupperà nel contesto del consorzio North Sea Wind Power Hub.
“Come accade su ogni isola, gli abitanti non hanno vita facile”, evidenzia Hanne Storm Edlefsen, Vice President of Energy Islands di Energinet. “Gli abitanti di Bornholm supportano gli investimenti perché permetteranno all’isola di avere un futuro con nuovi posti di lavoro”. Ma lo sviluppo di opere infrastrutturali dal notevole impatto ambientale e paesaggistico porta con sé anche molte criticità. Per la Vesterhav South offshore wind farm, nel Mare del Nord, in una zona tradizionalmente turistica e con una rilevante impronta naturalistica, la progettazione di un parco eolico marino con 20 turbine a meno di 10 chilometri dalla costa ha visto un lungo dialogo tra autorità pubbliche, sviluppatori privati e cittadini inizialmente contrari, a causa dell’impatto visivo delle turbine, delle potenziali conseguenze sul turismo e della perdita di valore degli immobili della zona. Il processo si è concluso con l’assegnazione del 20% delle azioni alla popolazione locale, rendendo così i residenti comproprietari del parco.
Il problema principale del settore continua, tuttavia, a riguardare i costi. Pochi giorni fa è arrivata la doccia fredda del governo danese sulla futura isola energetica del Mare del Nord: il lancio della gara d’appalto, previsto prima della pausa estiva, è stato rinviato, per la seconda volta, a causa delle stime economiche del progetto, che su un valore complessivo di 28 miliardi di euro, vedrebbe per lo Stato un esborso di circa 6,7 miliardi di euro. “Nella sua attuale forma, i costi sono eccessivi e i rischi sono troppi”, ha dichiarato in una nota il ministero dell’Energia. “Il progetto è ben lungi dall’essere redditizio, che è una chiara condizione per la sua realizzazione negli accordi politici”. Il dicastero ha annunciato la necessità di esplorare alternative per ridurre i costi, gettando qualche ombra sulla reale fattibilità dei progetti più ambiziosi. Anche il progetto di Bornholm, un partenariato pubblico-privato, procede con qualche incertezza: i dialoghi iniziali con il mercato, con l’invito a proporre agli investitori, non hanno avuto i riscontri sperati e le autorità restano alla finestra. Nulla, tuttavia, che molti operatori dell’industria eolica non sappiano già. “L’eolico offshore è un mercato immaginario. Ha solo 20 anni e non è economicamente sostenibile”, ha detto uno dei protagonisti della filiera. “Sono pochi quelli che ci stanno guadagnando, e perché gli operatori riescano a raggiungere il punto di pareggio ci vorranno almeno altri 5 anni”.