Quando risponde al telefono è a pochi passi da Nyimba, piccolo villaggio nello Zambia Orientale. Leandro Bracco, 46 anni, sta attraversando l’Africa in pellegrinaggio da fine marzo e il suo percorso continuerà fino a Natale. Cinquemila chilometri in tutto che iniziano dalla Tanzania, circa millesettecento già camminati. L’obiettivo è conoscere un continente senza gli occhiali da vista eurocentrici e occidentali, con una forte motivazione religiosa e personale alle spalle. Il progetto si chiama “AlimentiAMO la Speranza” e il viaggio attraversa sette Stati africani: Tanzania, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Sudafrica, Eswatini e Mozambico. “Vorrei smuovere le coscienze e raccogliere denaro per nove progetti di carità in questi Stati”, racconta a ilFattoQuotidiano.it. Alcuni esempi sono la riqualificazione di una fattoria in Mozambico per trasformarla in una scuola e la costruzione di una cisterna in un istituto elementare in Zimbabwe, mentre nel sud della Tanzania Bracco vuole contribuire all’edificazione di un’unità di emergenza nell’Hospital Ikonda.
Ci spieghi meglio, come mai è partito?
L’idea è venuta il 1° novembre del 2019, dopo che ho assistito a una messa nella Chiesa di San Salvatore di Addis Abeba. Erano passati otto mesi dalla scomparsa di mio padre, morto a causa di una malattia rarissima. Poi tutto ha preso forma lentamente e il viaggio è iniziato il 25 marzo 2023 e andrà avanti fino a dicembre, quindi dal mese dell’Annunciazione fino a Natale. Ora mi trovo nello Zambia orientale, poi attraverserò lo Zimbabwe. L’ultimo Stato sarà il Mozambico.
Qual è la prima lezione che ha imparato sull’Africa vivendola da pellegrino?
Abbiamo una visione molto distorta di questo continente. Mi sono reso conto che tra la povertà e la miseria c’è l’abisso. Non sono sinonimi, come indica invece il dizionario. Stando qui nell’Africa non occidentalizzata si capisce subito che la popolazione vive nella miseria più assoluta e nel disinteresse della comunità internazionale. Come diceva Pannella, o ci interessiamo dell’Africa come potenza mondiale o sarà l’Africa a interessarsi di noi. Servirebbe un piano Marshall per l’Africa.
Le politiche che si basano sull’“aiutiamoli a casa loro” non hanno funzionato, però. Cosa potrebbe fare la comunità internazionale?
Questi slogan non possono bastare. O c’è un impegno di tutte le potenze mondiali con politiche di governance, o non se ne esce. Noi piangiamo quando vediamo i cadaveri dei bambini sulle nostre spiagge, poi le notizie di cronaca nera prevalgono e ci dimentichiamo di tutto. Quando uscì la canzone We are the world nel 1986 si cercava di fare fronte alla carestia in Etiopia. Pensavo che quel 1986 fosse l’anno zero per l’Africa. Invece mi sono reso conto che non è così: adesso siamo ancora all’anno zero.
Le comunità internazionale, però, negli anni ha iniziato a prendere coscienza del tema.
Stando qui ho capito che molti leader politici mondiali parlano di ciò che non conoscono. La realtà degli Stati africani è a dir poco sfaccettata. Molti capi di Stato dovrebbero venire qui nei villaggi, per vedere la condizione in cui vivono milioni di persone. Invece parlano di Africa seduti comodi nei loro palazzi dorati e approvano risoluzioni che restano sulla carta. Il mio rimane un pellegrinaggio molto religioso e cattolico. Mi sto rendendo conto che Papa Francesco ha ragione da vendere quando dice che bisogna combattere le metastasi della globalizzazione dell’indifferenza.
L’indifferenza c’è davvero in tutti gli Stati?
Prima di tutto bisogna specificare che questa indifferenza non è conveniente neanche a livello strategico e geopolitico. Infatti la Cina l’ha capito ed è in corso una colonizzazione 2.0. Pechino ha bisogno come ossigeno di materie prime e qui in Africa le trova. In questi cinque mesi ho visto una marea di cantieri aperti, tutti cinesi e tutti enormi. È la Cina che comanda qui: per pochi soldi si porta via una quantità sterminata di materie prime. È a questi Paesi che conviene che l’Africa rimanga al suo anno zero di cui parlavo.
Le politiche europee per l’immigrazione sono spesso contenitive e l’integrazione si ricerca con modelli multiculturali e interculturali. Come si trova una quadra?
Il problema è innanzitutto culturale. Prendiamo, ad esempio, il caso italiano. Se qualcuno mi dicesse che in Italia il razzismo non esiste più, gli risponderei che si sbaglia. Il razzismo c’è anche se è velato: molte persone bianche quando vedono persone nere non le accolgono con il sorriso, sono diffidenti e pongono barriere. Il razzismo c’è di più rispetto ad altri Paesi europei: non dico che l’Italia è un Paese razzista, ma il razzismo c’è.
Con che occhi è visto, invece, l’Occidente dall’Africa?
Qui si vive con una rassegnazione positiva. Credo che gli africani si trovino in una realtà molto disinteressata rispetto a ciò che accade in Europa. Sanno che di loro la comunità internazionale non si interessa. Attenzione, sono consapevoli del loro stato miseria materiale, ma la maggior parte non pensa nemmeno di provare ad attraversare il continente e poi il mare per arrivare in Occidente. Si nasce qui e si muore qui, senza l’idea di spostarsi nemmeno nei Paesi confinanti.
Torniamo al suo pellegrinaggio. Come è stato finanziato?
Non ho sponsor anche se ne ho cercati: ho investito circa 25mila euro. L’aspetto più importante è che questo pellegrinaggio è patrocinato a livello non oneroso dal Santuario della Madonna di Oropa, vicino a Biella, dove si prega la Vergine Nera.
Se dovesse scegliere un’immagine sola da riportare in Italia, quale sarebbe?
Lo sguardo di tutti i bambini che ho incontrato. Hanno negli occhi la luce dell’arcobaleno, non chiedono mai denaro. Basta fermarsi pochi attimi e condividere con loro qualche emozione. Poi tornano a casa come se avessero vinto alla lotteria. Io, per quegli sguardi, rifarei mille volte questo pellegrinaggio.