Guardi Mission: Impossible – Dead Reckoning parte uno e capisci perché a Hollywood sceneggiatori e attori sono in sciopero. La madre dell’intelligenza artificiale è sempre incinta. Non so se ci avete fatto caso ma la sequenza del treno nei 45 minuti finali di MI7 sono letteralmente identici al blocco introduttivo di una ventina di minuti in Indiana Jones e il quadrante del destino. Stessa scazzottata a fil di coltellino in piedi sul treno in corsa (in MI 7 sulle Alpi austriache, in IJ 5 sulle Alpi francesi) tra il buono (qua Ethan Hunt/Tom Cruise, là Indy/Harrison Ford) e il cattivo (qua Gabriel/Esai Morales, là il nazista di turno).
I due robusti blocchi narrativi sono sovrapponibili sia perché le soluzioni visive non possono essere infinite (primi piani, figure intere, campi lunghi) sia perché i rischi sono sempre tre: cadere dal treno dopo un fendente, staccarsi il cranio dopo aver sbattuto sui numerosi pali a spiovente sui binari, sfracellarsi quando arrivano i tunnel ridotti a filo di pochi centimetri dal tetto del vagone. Del resto se vi capita di vedere questi due film in una multisala sembra di trovarsi su un nastro di Moebius: entri nella sala di M:I 7 e ti ritrovi senza accorgertene in quella dove proiettano IJ 5 (e viceversa) poi torni indietro, e avanti ancora, di continuo. Ripetitività portami via. E se la riproduci con il softwarino senza pagare sceneggiatori in carne ed ossa risparmi pure (ad esempio l’intelligenza artificiale non sciopera, anche se si può incazzare parecchio come in 2001).
Per carità tra il film con Tom Cruise e quello con Harrison Ford ci sono differenze evidenti (il secondo ci è piaciuto, il primo ci ha lasciato abbastanza indifferenti). Quello che però conta in questo ragionamento è la (in)capacità di rinnovare, variare, rimescolare la serialità dei franchise hollywoodiani senza cadere nell’idea che storie(lle), intrecci(ni) e linee d’azione siano generate da un programmino intelligente preposto. Se MI7, come IJ5, ricalcano la sempiterna ricetta bondiana delle location suggestive, curiose, sconosciute in cui ambientare il nuovo capitolo del marchio (e quando una IA sostituirà uno scenografo? Apriti cielo) nel film di McQuarrie sembra che la scelta di Dubai-Roma-Venezia-Alpi austriache sia come un depliant patinato da sfogliare in salotto. Insomma più location che mission. E non possiamo affermare che McQuarrie sia un superficialone anche solo per come ha trattato in maniera raffinata il sequel di Top Gun lavorando di fino invece su storia ed epica, nonché su corpo e anima di Cruise, che là sembravano vive e che qui paiono precotte (un po’ come Ford ringiovanito sul tetto del trenino in IJ5, per intenderci). Certo è che nel film di Mangold, quinto capitolo di una saga iniziata nei primi anni ottanta (e non novanta come MI, le diverse generazioni di fan contano eccome per il rilevamento critico) che è apice spettacolare commerciale della New Hollywood, il concetto di ripetizione meccanica dello spazio dove ambientare l’azione (e meno la storia) acquisisce intriganti, bizzarre, provocatorie e creativamente umane variazioni: vedi la corsa a cavallo nella New York fine sessanta o il coup de theatre dei nazisti che incontrano Archimede.
C’è la scintilla del mai visto nell’Indy numero 5. Scintilla che in MI7 non scatta mai. Vuoi perché non siamo al capitolo della nostalgia del passato o del crepuscolo fisico del presente del protagonista (Cruise peraltro dovrebbe smetterla di ritoccarsi gli zigomi perché poi rischia di non vederci più), vuoi perché la programmaticità geometrica dell’operazione commerciale appiattisce ogni ipotesi di variazione vivificante della reiterazione dell’action. Non basta che Cruise compia le acrobazie in moto di persona, ricalcando Steve McQueen ne La grande fuga, il risultato di MI7 è proprio quello che si teme con l’avvento dell’IA: il recupero intelligente, e inanimato, di quello che andrà bene comunque agli spettatori della saga. In MI7 peraltro c’è tutto un sottotesto di scontro tra “civiltà”: usare l’analogico (per il bene di Hunt&co) per sfuggire all’intrusione dell’ “entità” (il canonico male) che si intrufola nei più infinitesimali gangli del digitale. Autoironia? Preveggenza? Comunque, pavidamente, sottotesto. Il vero peccato, in fondo, sta sempre lì: pensare che una fetta più larga di profitto per le major possa sostituire l’incognita della fallibilità della creatività dell’uomo. Insomma, meglio sforare e fallire con i Cancelli del cielo che perpetuare l’anonimato con una 500 gialla che sbatacchia bici elettriche e motorini per le vie cliché di Roma.