di Anne-Iris Romens*

Sono passati circa tre anni dall’inizio della pandemia e dal boom dello smart working. In pochi mesi l’Italia è passata dall’essere uno dei paesi in cui il lavoro da remoto era meno diffuso in Europa a contare oltre sette milioni di remote workers.

Con la fine del periodo emergenziale a marzo 2022, le aziende non sono più tenute a facilitare l’accesso al lavoro da remoto. Cosa rimane quindi oggi di questa esperienza? In che modo la remotizzazione continua a plasmare il mondo del lavoro e il quotidiano di milioni di lavoratrici e lavoratori in Italia? Queste sono alcune delle domande alle quali stiamo cercando di rispondere, insieme a Valentina Pacetti e Paolo Rossi dell’Università di Milano-Bicocca, in una ricerca che si concentra sul terziario avanzato milanese.

La nostra indagine evidenzia come, dalla fine del periodo emergenziale, le pratiche aziendali sul lavoro da remoto si siano progressivamente diversificate. Si contraddistinguono ormai tre macro tendenze: le realtà che incoraggiano i propri dipendenti a utilizzare il lavoro da remoto; quelle in cui vi è una forte spinta per tornare in presenza; infine altre che presentano una situazione “ibrida“, più diffusa, in cui si continua a lavorare a distanza ma soltanto per alcuni giorni a settimana.

Il primo gruppo è molto folto, e comprende spesso, ma non esclusivamente, sedi di multinazionali, che con l’avvento del remote work hanno ridotto gli spazi degli uffici, risparmiando e passando a un sistema di prenotazione della postazione. In queste realtà, il lavoro da remoto è arrivato per restare, come fa notare Carlo (nome cambiato a garanzia dell’anonimato) che lavora per una multinazionale che si occupa di servizi alle imprese: “In fase di pandemia abbiamo ulteriormente ridotto gli spazi in ufficio e quindi comunque non ci staremo tutti”.

Ma se si entra all’interno delle aziende la situazione appare più sfumata. Le pratiche di lavoro da remoto variano a seconda della posizione lavorativa e dell’età e anche a seconda del genere e dei carichi di cura in famiglia. Se la stragrande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori sono desiderosi di continuare a svolgere le loro mansioni da remoto, emerge come siano soprattutto donne con figli minorenni a voler lavorare più giorni da casa. Diventa quindi particolarmente importante monitorare l’utilizzo futuro di questa modalità lavorativa per accertarsi che non rafforzi le disuguaglianze di genere, portando le donne remote workers ad occuparsi sempre più dei figli mentre calano le loro prospettive lavorative. Se il lavoro da remoto può effettivamente facilitare la conciliazione tra i diversi tempi di vita, non deve essere confuso con una politica di sostegno alla cura. Il suo utilizzo deve essere accompagnato da misure che favoriscano la condivisione del lavoro di cura nelle copie e dallo sviluppo di servizi di cura di prossimità, come asili nido più diffusi sul territorio.

Un’altra caratteristica che colpisce chi studia la remotizzazione in questo periodo di aggiustamento post pandemico è la presenza piuttosto diffusa dell’informalità. Ad esempio, il numero di giorni svolti da remoto non sempre corrisponde a quello indicato negli accordi aziendali. Ai giorni ufficiali vengono spesso aggiunte giornate da remoto ufficiose percepite dai dipendenti come concessioni da parte del management. Questa informalità alimenta l’idea che il lavoro da remoto sia un benefit e incrementa la sensazione della forza lavoro di dover “meritare” la possibilità di svolgere le proprie mansioni a distanza. Ne risulta una predisposizione a lavorare oltre l’orario o a mettere in discussione i propri diritti. Diventa comune, ad esempio, mettersi in smart working invece di dichiarare una malattia o chiedere un congedo parentale (spesso anche sotto pressione del proprio management).

Un ultimo punto che merita attenzione riguarda i costi del lavoro, in quanto le condizioni lavorative da casa possono essere molto eterogenee a seconda delle risorse economiche del singolo remote worker. Dalle nostre indagini emerge come siano pochi a disporre a casa di uno spazio dedicato quale ad esempio uno studio, mentre la maggioranza lavora in spazi condivisi come la cucina o il salotto, con una strumentazione non sempre adeguata. È quindi importante che la remotizzazione non si traduca in un trasferimento dei costi sui dipendenti da parte delle aziende, ma che siano queste ultime a continuare a sostenere il costo della strumentazione e delle altre attrezzature necessarie per svolgere la prestazione da remoto in buone condizioni.

La nostra ricerca mette quindi in luce che il lavoro da remoto è percepito come un’opportunità preziosa per molte lavoratrici e molti lavoratori desiderosi di gestire il proprio tempo con più autonomia. Al contempo evidenzia quanto sia importante che venga regolamentato e monitorato per accertarsi che la sua implementazione non rafforzi le disuguaglianze sociali.

*Assegnista di ricerca, Università di Milano – Bicocca

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