Mafie

I morti di via D’Amelio credevano in un’Italia migliore: ora i legami tra mafia e politica non indignano più

Il 19 luglio ricorre l’anniversario della morte di Paolo Borsellino e dei poliziotti che erano con lui in via D’Amelio: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, una delle primissime donne assegnate a un servizio di scorta.

Il nostro paese non attraversa un buon momento e in alcune componenti anche istituzionalmente rilevanti tende – al di là della retorica commemorativa – a dimenticare perché sono morte le vittime della strage di via d’Amelio e le altre vittime di mafia. Sono morte perché la mafia le ha uccise, ovviamente; ma soprattutto perché credevano che fosse possibile un’Italia migliore e per questo obiettivo si sono sacrificate.

Ora se c’è una cosa che sfregia il nostro Paese è l’eclissi della questione morale. Un tempo, tutte le volte che accadeva qualcosa di riconducibile ad un caso di trasformazione della politica in lobby d’affari o di contaminazione fra apparati dei partiti e mondo affaristico-economico, ci si indignava. Oggi non più. Per questo si parla di eclissi della questione morale. Ed è un problema non di poco conto, posto che di quella trasformazione o contaminazione sono figli primogeniti il clientelismo e varie forme di illegalità, dalla corruzione alle collusioni con la mafia.

Dunque la questione morale è in crisi. Di fatto è stata accantonata. Non è (anche se qualcuno cerca di farlo credere) una pruderie di benpensanti, ma una grande questione democratica e istituzionale: per la decisiva ragione che un sistema intriso di clientelismo ed illegalità, di corruzione e di rapporti con la mafia è l’emblema del prevalere dell’interesse privato sull’interesse pubblico.

Per contro, va scomparendo persino, in quanto imbarazzante, l’evocazione di ogni questione posta dal rapporto tra etica e politica. Il vecchio rilievo machiavellico secondo cui gli Stati non si governano con i pater noster fa, evidentemente, premio sul pensiero dei nostri maestri – da Norberto Bobbio in poi – secondo i quali la corruzione è priva di giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno, così il corrotto – come il colluso con la mafia – resta corrotto o colluso, a prescindere dalle sue capacità, dalla sua posizione sociale e dai suoi successi. Ma siamo anche il paese di Luigi Pirandello, del “Così è (se vi pare)”, dell’ “Uno nessuno e centomila” e via seguitando. Solo che Pirandello era un genio della drammaturgia, mentre chi oggi confonde e mescola le carte perché non emerga mai qualsivoglia specie di responsabilità per fatti anche gravi, è un campione della “neolingua” di stampo orwelliano, se non di idee che rasentano l’assurdo e le ipotesi dell’irrealtà.

Sullo specifico versante dei rapporti fra malaffare e politica, di fatto la questione morale sembra non solo accantonata ma addirittura cancellata. Periodicamente vi sono inchieste che offrono “in presa diretta” (mediante l’intercettazione telefonica o ambientale di conversazioni che definire inquietanti è davvero un eufemismo) uno spaccato sconvolgente di un mondo opaco, popolato di personaggi che la questione morale non sanno neppure cosa sia, sempre pronti come sono a barare essi stessi o a trescare con uomini di malaffare mafiosi compresi. E quelli che si indignano sono sempre di meno: invece del “profumo di libertà”, invocato da Paolo Borsellino poco prima della sua morte, sale il puzzo del compromesso e della normalizzazione.

Ecco, su tutte queste cose sarebbe bene riflettere anche ricordando Borsellino e le altre vittime di via D’Amelio, invece di essere costretti a tamponare le incredibili performance di Carlo Nordio sul concorso esterno in associazione mafiosa.