Nel novero dei cosiddetti nuovi diritti di cui si parla sempre più spesso, forse andrebbe inserito uno meno “avvertito” di altri, ma non meno attuale. Ci riferiamo al diritto di restare “analogici”, di non essere compiutamente e definitivamente digitalizzati in termini di identità e agibilità sociale. Il tema dovrebbe essere posto all’ordine del giorno dell’agenda politica, soprattutto dopo il biennio pandemico e l’introduzione del green pass. A maggior ragione, alla luce dell’accordo di giugno scorso tra Oms e Unione europea dal titolo “Eu global health strategy” che prevede l’adozione, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, della tecnologia e della piattaforma di interoperabilità implementata dalla Ue durante il periodo della campagna vaccinale anti-Covid-19.
Tuttavia, è bene chiarirsi: quando si discute delle future opportunità di una società digitalizzata stiamo (stanno) parlando di un diritto, di una facoltà, di una opzione, di una scelta? Oppure di una imposizione e di un obbligo? Altrimenti detto: un giorno avremo tutti, nessuno escluso, la possibilità, volendolo, di essere identificati e di interagire in modo esclusivamente digitale? Oppure dovranno, giocoforza, rassegnarsi a questa sorte anche coloro che non intendono abbandonare la loro arcaica dimensione “analogica”? Dopotutto, si potrebbe rispondere, avallando la seconda ipotesi: è il progresso tecnologico, bellezza! Eppure, siamo convinti che il diritto a “resistere” a questa tendenza non solo esista, ma debba essere a tutti i costi preservato. Che le nostre vite, a livello informatico, siano oggettivamente sempre più tracciate, e tracciabili, è un fatto. Che questo fatto debba trasformarsi in un obbligo, è tutto da dimostrare.
E non ci riferiamo solo al caso più estremo in cui un’agenzia di “governance” (nazionale, europea o mondiale) decidesse di costringere i cittadini a dotarsi di un wallet e di un profilo digitali. Consideriamo anche ipotesi più soft, dove la spinta è “gentile” e non passa dalla coercizione della legge, ma dalla “persuasività” delle circostanze (per esempio, dal rendere la vita difficile, se non impossibile, a chi non si adegua). Un po’, se volete, l’inveramento della profezia di Casaleggio nel celebre video su “La fine della politica” in cui si prefigura un’epoca in cui “dovremo” essere dentro la cosiddetta Earthlink; altrimenti, semplicemente, non esisteremo.
Qui non mettiamo ovviamente in discussione il diritto (di chiunque lo desideri) di tuffarsi a corpo morto, per così dire, in un sistema siffatto. Rivendichiamo, però, il diritto di chi non ci sta a conservare una propria identità, dimensione e operabilità “analogiche”. E richiamiamo, altresì, il dovere dello Stato di garantire percorsi alternativi funzionali, “funzionanti” e non discriminanti nei quali esse continuino ad essere esercitabili. I motivi per dire no a una digitalizzazione universale, coatta ed estensiva delle relazioni umane sono evidenti: dal rischio di subire un controllo sempre più intrusivo sulla vita privata a quello di essere “disattivati” con un clic dal Sistema (vieppiù laddove il “pacchetto” dovesse essere integrato da una moneta digitale e dalla definitiva sparizione del denaro contante); fino alla possibilità non remota che la “cittadinanza” digitale, e il correlato godimento dei relativi diritti fondamentali, sia condizionata dal rispetto di norme e condotte considerate auspicabili dal Potere costituito (i cosiddetti crediti sociali già sperimentati in Cina).
Ma ora spostiamoci sul piano giuridico e ritorniamo al punto da dove eravamo partiti. A quali leggi o a quali precedenti significativi possiamo rifarci per vedere tutelata questa esigenza? In primis, ovviamente, alla nostra Costituzione, e in particolare al secondo comma dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ma possiamo anche citare la cosiddetta Dichiarazione dei diritti di internet (elaborata dalla Commissione sui diritti e doveri della rete istituita presso la Camera dei Deputati) e presentata il 28 luglio 2015 dalla allora Presidente della Camera, Laura Boldrini. Nel citato documento, si legge, all’articolo 7: “Nessun atto, provvedimento giudiziario o amministrativo, decisione comunque destinata ad incidere in maniera significativa nella sfera delle persone possono essere fondati unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato”.
Vi sono, per concludere, plurime e inattaccabili ragioni per ritenere che la pretesa di restare “analogici” non sia solo un capriccio di nicchia, ma un vero e proprio “nuovo” diritto da salvaguardare e rendere sempre più effettivo, quanto più avanza inesorabile la digitalizzazione delle nostre esistenze.
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