di Roberto Iannuzzi *
Lo scorso aprile, un trionfale articolo dell’Economist intitolato “The lessons from America’s astonishing economic record” affermava che “la più grande economia del mondo sta lasciando i suoi competitori sempre più nella polvere”. La scomoda verità – ha però osservato Graham Allison, uno dei massimi politologi americani – è che The Economist giunge a questa sbalorditiva conclusione proprio escludendo l’unico vero competitore degli Stati Uniti: la Cina.
Il paragone a cui si limitava il noto settimanale britannico era fra gli Usa e gli altri paesi del G7. In questa competizione, gli Stati Uniti non solo sono avanti ma stanno accrescendo il loro distacco. Il punto scottante, sottolinea Allison, è che a partire dalla fondazione del G7 circa mezzo secolo fa, la quota del Pil globale a cui contribuisce il gruppo è andata progressivamente diminuendo. Queste sette economie, che negli anni 70 del secolo scorso determinavano oltre il 60% dell’output mondiale, oggi ne rappresentano solo il 44% (appena il 30% se misurato a parità di potere d’acquisto).
Mentre la sfida decisiva dei prossimi anni sarà quella fra Usa e Cina, ciò a cui stiamo assistendo è una sorta di “cannibalismo” economico fra paesi dell’Occidente. Se nel 2008 l’economia dell’Unione Europea era poco più grande di quella americana (16,2 trilioni di dollari contro 14,7), nel 2022 l’economia Usa ha raggiunto i 25 trilioni mentre quella di Ue e Regno Unito insieme non ha toccato neanche i 20 trilioni. Il divario continua ad aumentare, e non è solo una questione di tenore di vita. E’ la crescente dipendenza europea dagli Stati Uniti in materia di tecnologia, energia, finanza e difesa che sta erodendo ogni residua aspirazione di “autonomia strategica” dell’Europa.
Il panorama tecnologico europeo è dominato da compagnie americane come Microsoft, Amazon e Apple. Mentre la Cina ha sviluppato i propri giganti tecnologici, le poche compagnie europee che emergono vengono spesso acquistate dagli Stati Uniti. Se nel 1990 l’Europa produceva il 44% dei semiconduttori a livello mondiale, questa percentuale è scesa attorno al 9% nel 2020. Con una quota pari al 12%, gli Usa non se la passano meglio. Ma mentre Washington ha messo in campo un’ambiziosa politica industriale con i provvedimenti dell’Inflation Reduction Act (IRA) e del CHIPS and Science Act, le grandi aspirazioni europee riguardo alla transizione ecologica ed a quella digitale rischiano di rimanere sulla carta.
Di fronte agli ingenti sussidi industriali messi in campo dall’IRA, che rischiano di svantaggiare pesantemente l’industria dell’Ue, la Commissione Europea ha mostrato una sconcertante passività.
Nel frattempo, per il tanto sbandierato Green Deal europeo che dovrebbe costare 620 miliardi di euro, la Commissione ha stanziato appena 82,5 miliardi, lasciando presagire che esso rimarrà probabilmente poco più di uno slogan. E mentre lo status di valuta di riserva mondiale di cui gode il dollaro permette a Washington di finanziare i propri piani, i problemi congeniti dell’unione monetaria europea pongono limiti molto più stringenti all’Ue.
Dopo il crollo del muro di Berlino, per alcuni anni era forse sembrato che l’Europa fosse meno dipendente dall’America. Ma, puntando sull’allargamento a est della Nato e dell’Ue, Washington ha creato un nuovo serbatoio di paesi strettamente legati agli Usa, allo stesso tempo spostando il baricentro dell’Unione e dell’Alleanza Atlantica. Sfruttando abilmente il conflitto ucraino, gli Stati Uniti hanno nuovamente imposto la loro indispensabilità nel continente europeo, spingendo i propri alleati a rompere ogni rapporto con Mosca ed a rinunciare alle fonti energetiche russe a basso costo. Ciò ha creato un ulteriore squilibrio fra le due sponde dell’Atlantico. Mentre gli Usa dispongono di proprie fonti di gas e petrolio a buon mercato, i prezzi energetici europei sono schizzati alle stelle.
La Germania, motore della crescita Ue, ha visto il proprio modello di prosperità fondato sulle esportazioni progressivamente demolito dall’elevata inflazione e da spese quadruplicate a causa della sua improvvisa dipendenza dalle costose fonti energetiche statunitensi. Ciò ha posto il paese in recessione. Il problema, comune ad altri paesi dell’Unione, accresce ulteriormente il rischio di una migrazione delle imprese europee sull’altra sponda dell’Atlantico, e di una progressiva deindustrializzazione del vecchio continente.
Gli europei hanno cominciato a impoverirsi. A differenza degli Stati Uniti, i consumi in Europa stanno diminuendo. L’Ue ora contribuisce al 18% della spesa globale per i consumi, a fronte di un contributo americano pari al 28%. Quindici anni fa, sia gli Usa che l’Ue contribuivano a circa un quarto di tale spesa.
Nel frattempo, la militarizzazione dell’Europa a seguito dello scontro con la Russia, in assenza di una robusta industria europea della difesa, è destinata a creare ulteriore dipendenza dall’industria bellica americana.
Già prima del conflitto, circa metà della spesa militare europea andava ad arricchire il complesso militare-industriale statunitense. E alla luce della competizione con Pechino, Washington sta esercitando pressioni sui paesi europei affinché riducano anche i propri interessi commerciali ed i propri investimenti in Cina. Nel panorama della nuova competizione globale, l’Europa rischia dunque di diventare la retrovia impoverita (se non addirittura il campo di battaglia) di un Occidente in declino.
* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
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