Recensione del nuovo film di Christopher Nolan, nelle sale italiane dal 23 agosto
Potente ma non potentissimo. Spettacolarmente eloquente ma non clamoroso. Insomma, “uno psicodramma storico avvincente che non si trasforma in Big Bang”. Oppenheimer di Christopher Nolan (da oggi nelle sale del pianeta terra, in Italia solo dal 23 agosto) non delude le aspettative ma nemmeno fa sfracelli. Un po’ come in tutta la filmografia del nostro, c’è sempre questo osare, con una propria introversa irrequieta vertigine espressiva, un volo verso un sole kubrickiano-malickiano, qui la prima assoluta esplosione atomica della storia della fisica e dell’uomo (il test Trinity) avvenuta nel deserto del New Mexico il 16 luglio del 1945, propedeutica alle due bombe atomiche sganciate poche settimane dopo su Hiroshima e Nagasaki.
La matrice di senso quasi tattile in Oppenheimer risiede prima di tutto nei lampi continui di visioni di onde e particelle, dell’invisibile matericità del cosmo oltre le equazioni della fisica, che funestano l’immaginazione di Robert J. Oppenheimer (Cillian Murphy, lui sì potentissimo, clamoroso e da Big Bang), riccioletti alla Chaplin, occhi azzurri gocciolanti geniale e silenziosa visionarietà, studente segaligno degli anni venti tra le aule e i laboratori delle università europee dove incontrerà i padri nobili della fisica. Nolan fa correre immediatamente, fin dal primo fotogramma, il narrato in una torsione soggettiva, e verso una tesa tensione storico etico politica, l’affaire Oppenheimer. Un’ora e venti iniziale (il film dura tre ore) compatta, scintillante, quasi furiosa, che mescola guizzanti frammenti fantasmagorici, finemente cesellati, di privato, pubblico, professionale, intimo di Oppie fino alla direzione del Progetto Manhattan che inizierà nel 1943.
Formalmente il risultato è strabiliante, grazie al lavoro inesausto e febbrile di montaggio (Jennifer Lame) e al soundtrack minaccioso e vibrante di Ludwig Gorasson che non abbandona mai, sottolineiamo mai, un secondo di immagini congiungendo senza lasciare il benchè minimo spazio ad uno spillo tra i più vari dettagli significativi della vita del protagonista. Ne esce il denso ritratto di un intellettuale a tutto tondo coinvolto e travolto dei fermenti dell’evoluzione improvvisa delle scienze e della meccanica quantistica come del marxismo infilatosi naturalmente nei profondi gangli della società anche accademica, del libertinaggio sessual-sentimentale (la relazione con Jean Tatlock/Florence Pugh che risente di molti costrutti psicoanalitici freudiani) come dalla trasformazione epocale della cultura umanista di fronte al presunto potere dell’uomo sul mondo attraverso un’arma di distruzione di massa.
La seconda parte diventa cuore pulsante in crescendo di estremo realismo tra le caserme in legno dell’isolato villaggio nel deserto creato dal nulla, in cui esercito e governo statunitense rinchiudono i fisici e i loro familiari affinché si arrivi con celerità alla creazione dell’atomica per annientare gli avvantaggiati nazisti. Spazialità e profondità di campo si fanno larghi e il percorso fulmineo, senza un attimo di sosta, verso il climax – dieci, quindici minuti in cui si prepara la detonazione di prova con la prima visione da decine di chilometri di distanza del fungo atomico con occhiali nerissimi o specchietti scuri come filtro – è da annali del cinema. Avesse concluso qui Nolan, saremmo a raccontare un capolavoro.
Invece l’ultima parte è quella del dubbio, anzi della coscienza che si illumina nella rutilante e ancora tremante immaginazione del protagonista, e che improvvisamente sente come colpa e peso quell’entusiasmo e fede nella scienza che ha portato all’uccisione di centinaia di migliaia di uomini in pochi istanti. L’armarsi con l’atomica va regolato, altrimenti il mondo salterà in aria senza accorgersene. Un tentennamento etico di Oppie che il presidente Truman (un minuto e mezzo di Gary Oldman da urlo) qualifica biascicante con “levatemi dalle palle questo piagnucolone”. La mirabile sequenza in cui il protagonista è atteso in una saletta zeppa di collaboratori e loro familiari letteralmente isterici per la gioia di aver annientato i giapponesi misura l’inversione morale a U del protagonista. Le bombe atomiche “non sono la fine della seconda guerra mondiale, ma l’inizio della guerra fredda”. Così se sulle sue simpatie e frequentazioni comuniste pre ’43 i governanti ci erano passati sopra, in un clima politico mutato diventano stigma maccartista da risolvere in un umiliante e stretto bugigattolo dove si svolgerà un informale processo al fisico reo di essere spia per conto sovietico. È proprio questo incanalarsi di nuovo in uno spazio angusto, nonostante la fertile visionarietà di cui ancora soffre Oppie, con un colpo di scena puramente di trama (si scopre chi è il cattivo che ha agito per vendetta e ha affossato la reputazione di Oppenheimer) che fa scendere di qualche gradino d’intensità il film. Protagonista risarcito come nella storia, ma opera generale che si comprime, si schiaccia nella monolitica particella giudiziaria da court room movie (fate caso a come è spompo l’ennesimo bordone narrativo in bianco e nero della commissione dove l’antagonista Lewis Strauss/Robert Downey Jr. si sgonfia).
Al netto dei difetti Oppenheimer rimane cinema creativamente temerario e raro, da vedere assolutamente in sala dove lo proiettano in 70mm, anche solo per recuperare la filosofia ribelle e libertaria della New Hollywood di cui questo film è figlio e per una riflessione di sano, razionale, umano pacifismo in tempi di sterile propaganda guerresca. Murphy, schiacciato perennemente in tesissimi primissimi piani e in una specie di grandangolo angolare sugli occhi, è subito da Oscar. Il codazzo funzionale di grandi star sembra invece lì più per il nome (Branagh, ad esempio) che rispetto a ciò che realmente aggiunge al film. Infine per noi, sia messo agli atti, un solo fremito di nervi della gola di Emily Blunt (Kitty, moglie prepotente e decisa del protagonista) vale cento Florence Pugh nude.